Di rattus norvegicus
Ma il vero problema, a mio modo di vedere, riguarda la “transizione” che la
tecnologia ha attraversato in questi ultimi anni. In termini semplificati,
le tecnologie informatiche hanno subito un prevedibile processo di
normalizzazione. Il fenomeno ha avuto forme politiche, economiche e
culturali. Ogni volta che si verifica un evento innovativo sul fronte della
tecnologia i poteri forti sentono la necessita’ di “sussumerlo” in modo
progressivo e inesorabile, sforzandosi di esorcizzare il suo potenziale di
trasformazione.
Un paese conservatore come l’Italia, che ha sempre mantenuto elevato il
controllo sull’informazione circolante, ha sofferto il passaggio in modo
particolare. La fase “anarchica” della rete e’ stata vissuta con
preoccupazione dalle gerarchie politiche e religiose ed e’ stata
progressivamente tamponata con abili manovre. I piccoli provider sono
stati sgominati quando la connettivita’ e’ stata fornita gratuitamente dai
grandi gruppi. Se questo e’ stato il fenomeno piu’ vistoso che ha
caratterizzato lo scenario Internet, sul piano della produzione informatica
sono state sgominate le piccole aziende impegnate nella produzione
multimediale. Non vi e’ stato un mercato dei CD d’autore, non vi e’ stata
sperimentazione di narrativa ipertestuale e non vi e’ stata produzione di
videogame italiani (tranne alcuni fenomeni episodici). In effetti le
piccole aziende che sono sopravvissute sono state quelle concentrate sul
“gestionale” (database etc.). Ciononostante sono stati spesi quantitativi
enormi di risorse in didattica e formazione. Un esperto aziendale di lavoro
sostiene che in termini generali “oggi al lavoratore sono richieste
conoscenze che qualche anno fa erano di competenza esclusiva dei manager”.
E queste competenze sono riferite prevalentemente alle tecnologie
informatica. L’affermazione e’ rivelatrice del pieno compiersi del processo
di diffusione delle tecnologie digitali. Diffusione che pero’ e’ stata in
gran parte pilotata dall’alto.
Una cosa si puo’ dire senza paura di sbagliare: la rete in Italia ha
“bucato” come fenomeno di massa, soprattutto in quanto struttura necessaria
all’accesso al lavoro e all’informazione in senso generico. Le tre “I” del
presidente del consiglio assegnano a internet una funzione puramente
didattica e imprenditoriale.
Sul piano della comunicazione politica non si e’ riusciti a far passare
l’idea che la comunicazione di rete potrebbe costituire un’alternativa
seria e credibile al modello televisivo. Non deve quindi stupire se oggi la
rete convive fin troppo con la TV. Anche tra i profeti c’e’ stata la
tendenza progressiva a scegliere il terreno dei media mainstream per
diffondere il verbo di Internet.
Alle lunghe la cosa ha finito con il ristabilire una gerarchia: assume
un significato preciso il fatto che su indymedia-Italia circolino di
continuo commenti a notizie ed episodi lanciati dai media mainstream
(comprese molte e assai atroci frescacce). Come pure circolano “troppi”
articoli provenienti dai quotidiani. A quanto pare non c’e’ molta voglia di
spremersi le meningi. Cosi’, via via che su Internet si affacciano nuovi
“utenti”, si assiste a un preoccupante riconoscimento “dal basso” del ruolo
e della funzione centrale dell’apparecchio televisivo .
Si poteva evitare ? Non lo so. Forse si’.
Abbiamo, nei fatti, un aumento della partecipazione in rete a cui
corrispondono tanto un livellamento delle competenze quanto un degrado
della qualita’ dell’informazione. Nielsen si lamenta che la rete sta
diventando impraticabile a causa dello SPAM, dell’eccesso di cattiva
informazione, internet pollution etc.
http://news.bbc.co.uk/2/hi/technology/3171376.stm
Certo che, ci avesse risparmiato tutte le sue geremiadi sulla
“semplificazione universale”, forse le cose sarebbero andate un po’
diversamente.
Un’interpretazione plausibile di questo degrado dell’intelligenza
connettiva e’ quella, assai diffusa, secondo cui il fenomeno e’ in gran
parte imputabile alla “fuffa”, all’overload cognitivo: la crisi del
rapporto domanda offerta si spiegherebbe principalmente con l’eccesso di
offerta rispetto alle risorse cognitive e temporali a disposizione degli
individui. Ma si tratta di una spiagazione che ha qualche punto debole. Sul
terreno nazionale non c’e’ mai stata una produzione davvero “forte”. Non
sembra proprio che la sovrapproduzione digitale riguardi prodotti di alto
livello o di qualche interesse sperimentale o artistico o produttivo. E non
e’ diminuito l’infotainment. Piu’ semplicemente l’informatica in Italia non
ha vinto la battaglia per la conquista dell’attenzione pubblica.
Piuttosto, si e’ avuta una moltiplicazione di singolarita’ che hanno
riversato su Internet energie “frustrate”. Inutile nasconderselo, la
prevalenza del “testuale” e’ il segno di un arretramento delle possibilita’
espressive peculiari della comunicazione digitale.
Sarebbe utile domandarsi quante proposte, quante idee, quanta
disponibilita’ e creativita’ e’ stata sciupata (soprattutto in italia) in
questi anni, per la mancanza di un uso realmente produttivo delle risorse
intelligenti. Per esempio se qui non c’e’ stata un’industria indipentente
nel produttivo settore del videogame, cio’ deve essere imputato alla
assoluta miopia del ceto politico. Una miopia, peraltro, non del tutto
innocente, non sempre disinteressata. “Cash and pluff” e’ stata la parola
d’ordine che ha dominato in questi anni. Cambia poi molto se qualcuno
naviga la corrente senza piu’ freni e organizza con denaro pubblico corsi
di formazione per “veline” ?
Ma, se questo e’ lo scenario, conviene ripensare anche ai nostri
ragionamenti sulla generazione videoelettronica. Ho l’impressione che sia
partita una corsa al ribasso, in cui facciamo fatica a distinguere concetti
che una volta ci sarebbero sembrati elementari. Faccio un esempio: da piu’
parti si sta portando il videogame alla sbarra.
http://italy.indymedia.org/news/2003/11/426743.php
Pare che negli Stati Uniti i videogiochi “spara spara” siano utilizzati per
reclutare militari. Fatto effettivamente allucinante. Il problema e’ pero’
che questi fenomeni non vengono denunciati per la loro assurdita’ “in
quanto tali”. Si sceglie, invece, di accusare il videogame tour court. La
responsabilita’ diventa della struttura logica “binaria” collocata al suo
interno. Come se le mitragliatrici degli eserciti sparassero bit. Come se i
bambini non avessero mai giocato prima a soldatini. Come se non fosse anche
responsabilita’ politica ed economica degli adulti se i videogame piu’
diffusi sono quelli di guerra.
Questo atteggiamento finisce, direttamente o indirettamente, per fare il
gioco dei vecchi poteri. Poteri che giocano la loro battaglia
prevalentemente sul piano del disciplinamento dei corpi. E che temono
principalmente quella “ragione sensibile”, quella spinta liberatoria, che
si rileva in videogame pionieristici come Tetris o Pong. Rinunciare a
interrogarsi sul perche’ giocare a tetris puo’ dare piacere significa voler
rimuovere il problema della qualita’ della comunicazione digitale.
Qui si rende necessaria un’altra considerazione: non e’ affatto vero che la
“logica” sia nemica dell’uomo. Ne’ deve necessariamente esistere una
contrapposizione tra logica e sensibilita’ percettiva. Il modo corretto di
affrontare il problema mi sembra essere quello in cui la logica viene
intesa come una forma di pensiero. Non l’unica, non la piu’ importante, non
quella in grado di risolvere tutti i problemi. Questo, incidentalmente, e’
il punto centrale del libro “I bastardi di Voltaire” di Ralston Saul. A
dare problemi non e’ la razionalita’ in se’ stessa. Piuttosto ne produce
molti la razionalita’ trasformata in culto, in una forma di religione
capace di offuscare dimensioni altrettanto umane come l’affetto, il
piacere, il gioco, la lotta.
E tuttavia un uso saggio della logica, del calcolo, dei rapporti di causa
effetto costituisce un elemento indispensabile, anche e soprattutto per
l’avanzamento dei movimenti. Prendiamo il personaggio Stallman. Da
adolescente Stallman applicava ragionamenti dotati di un formalismo
rigoroso a questioni assai poco scientifiche. S’era fatto stampare una
maglietta con scritto “processiamo dio”. Il ragionamento era piu’ o meno
questo: dio e’ onnipotente e onnisciente – quindi dio conosce le sofferenze
degli uomini – dio (onnipotente) non fa nulla per evitarle – quindi dio (se
esiste) e’ un’entita’ da biasimare o, al limite, eticamente riprovevole.
Non credo che i teologi sarebbero stati d’accordo con Stallman, ma si
tratta di un ragionamento abbastanza comprensibile e formalmente piuttosto
corretto. Lo stesso modo di procedere che una decina di anni dopo ha
spinto il Nostro a ideare la GPL: – io considero eticamente giusto che il
codice sia aperto – le leggi vigenti penalizzano questo mio convincimento –
quindi devo inventare un sistema che mi permetta di difendere il mio modo
di vedere le cose –
E fu la GPL.
Questo modo di procedere, che rimanda al pragmatismo filosofico che piace a
Lovink, appartiene allo stile di pensiero dell’informatica hard. Una
politica che sappia “pensare il possibile” dovrebbe farne tesoro, piuttosto
che demonizzarlo. Credo che sia necessario interrogarsi seriamente sul
rapporto tra logica e creativita’ politica.
In questa prospettiva la cultura di rete dovrebbe essere capace di far
divenire proposte politiche concrete quelle che attualmente si presentano
come potenzialita’ di sviluppo “possibili” e praticabili. Intendo ipotesi
dotate di futuro, reiterabili, migliorabili, implementabili. La costruzione
di proposte comprensibili, connotate da un significato politico chiaro,
dovrebbe essere posta al centro dell’azione globale delle comunita’ di
rete. Mi viene da pensare al WSIS prossimo venturo. Un argomento come
quello della “Biblioteca digitale universale in internet” – che pure e’ un
argomento “storico” che ha mosso iniziative come quella del bookmobile (e
che puo’ anche essere ricondotto a fenomeni significativi come il
bookcrossing) – non e’ stato neanche preso in considerazione (si veda in
proposito l’articolo dell’on. Cortiana su “Quintostato”). Eppure e’ uno
degli snodi centrali dell’uso “sociale” di internet. La pretesa di avere
accesso “full text” in rete almeno a tutto cio’ che non e’ sotto copyright
e’ sacrosanta. La “biblioteca universale online” andrebbe considerata in
ogni senso una “grande opera”. Senza la quale qualsiasi discorso pubblico
sulla societa’ dell’informazione suona goffo, stonato, fasullo. A maggior
ragione se si considerano le migliaia di persone che da decenni copiano in
rete libri in caratteri ascii (da noi, ad esempio, liber liber).
In modo del tutto analogo, avrebbe un senso molto preciso definire come
responsabilita’ precisa di quotidiani e settimanali quella di rendere
disponibili in rete, a distanza di qualche tempo, tutte le edizioni
pubblicate. Insomma, rivendicare per la rete anche il ruolo di “archivio”
storico e pubblico in grado di tenere sotto controllo la coerenza delle
scelte di testate e uomini politici. Ne va di un progresso generalizzato
della qualita’ e dell’affidabilita’ dell’informazione ufficiale. Pensate
quanto sarebbe stato utile ripescare collettivamente gli articoli degli
anni ’80 in cui l’Irak veniva definito da settimanali e quotidiani come un
paese arabo progressista.
Altrimenti rimaniamo inchiodati al “Porta a porta”, alla filosofia della
politica just in time. Quella che cucina la notizia come il piatto del
giorno. E con il giornale del giorno prima, diceva Pintor, si incartano le
patate.
Se il progetto dell’intelligenza collettiva ha un qualche senso pratico si
dovrebbe cercarlo proprio nella possibilita’ di aumentare la memoria
sociale, di amplificare la dimensione pubblica della verifica e del confronto.
Basti pensare che solo grazie a Franco Carlini abbiamo finalmente capito
cosa ha detto Sabina Guzzanti nella sua trasmissione e cosa conteneva il
sondaggio della comunita’ europea sui paesi che minacciano la pace.
Fin quando la filosofia dell’istantaneita’ potra’ contare sull’attuale
mancanza di chiarezza, determinando la volatilita’ degli umori alterni di
cittadini eternamente disorientati, difficilmente avverra’ quel processo di
sedimentazione delle idee di cui un pensiero politico in formazione ha
profondo bisogno. Per questa via a vincere i sondaggi sara’ sempre chi
grida piu’ forte.
In questi giorni si sta tenendo a Roma un importante convegno sul futuro
delle tecnologie digitali. In apertura i relatori hanno avuto la
benedizione, nientedimeno, che del cardinal Ruini (quello del “li
affronteremo ! “). Vi partecipano figure storiche della ricerca sulle nuove
tecnologie come Negroponte, Abruzzese, De Kerckove ed altri. Per chi ha
qualche sensibilita’ per il clima politico romano, la benedizione del
cardinale segna la definitiva “stabilizzazione” della rete all’interno
della “solite conventicole” (per dirla con il Sergio Castellitto di
“Caterina va in citta’”).
Abruzzese verra’ presentato da Tonino Cantelmi, uno psichiatra cattolico
noto, oltre che per le ricerche sulle patologie indotte da internet, anche
per le sue indagini psicologiche sulle vere “vocazioni” al sacerdozio. (Non
so in che modo Cantelmi si arrangera’ con le mephistofeliche argomentazioni
di Abruzzese sul postumano, ma tant’e’).
http://www.apogeonline.com/webzine/2003/11/24/15/200311241502
Quello che viene celebrato da queste figure storiche della filosofia dei
media e’ principalmente il processo di progressiva ibridazione tra media
televisivo e tecnologie di rete. Una situazione in cui a menare le danze
continua ad essere l’emotivita’ della comunicazione televisiva. Sembra
che le “lacrime al collirio” degli anchorman seducano molto piu’ delle
passioni fredde di chi scrive codice.
In effetti tutto fa pensare che l’impero mediatico a tutt’oggi non sia
affatto quello digitale, ma ancora quello “catodico”. Del resto
l’antropologia della comunicazione ha trovato recentemente nuovo materiale
di osservazione nella dimensione televisiva del lutto patrio. Un evento
che, ad ulteriore conferma della dimensione atrocemente pervasiva del
mezzo, ha “sospeso” la riflessione politica. Nella dimensione
“sentimentale” del dolore collettivo ogni ragionamento e’ divenuto
superfluo. Tutti i discorsi sono stati rimandati o banditi. Sulle note del
“silenzio” l’intelligenza s’e’ del tutto rarefatta. (Se Stallman si fosse
presentato a San Paolo con la sua maglietta sarebbe stato linciato. Padre
Pio, invece, ha fatto furore).
Del resto, a mio modo di vedere, non c’e’ nessuna speranza realistica che
le masse di cinquantenni cresciuti nella cultura televisiva sappiano
affrancarsene.
Piu’ interessante e’ domandarsi come andra’ per le generazioni a venire.
A tale riguardo la mia impressione e’ che il divario generazionale tendera’
a crescere insieme al disagio giovanile. Il punto centrale di questo
argomento e’ che mentre la societa’ e’ sempre piu’ organizzata
“tecnicamente” secondo una razionalita’ digitale di tipo cinico (“bastarda”
nel senso di Ralston Saul), il sentire, il tessuto relazionale, viene
formattato soprattutto da una comunicazione di carattere emozionale. Detto
brutalmente: mentre la logica organizzativa dell’economia di rete presiede
alla nuova strutturazione del lavoro, le spinte, i desideri, le
convinzioni, sono “mossi” dall’impatto epidermico del mezzo televisivo. La
formula dell’attuale duopolio sull’immaginario si risolve in due battute:
logica dei calcolatori che presiede su lavoro ed economia, spirito
televisivo che manovra il dibattito politico e gli umori delle masse. Una
tenaglia micidiale.
In un regime di schizofrenia come questo la condizione esistenziale di
giovani ed adolescenti tende a divenire intollerabile. Si tratta di un vero
e proprio “gioco al massacro” tra sentimentalismo incontinente e cinismo
spietato. Un dualismo particolarmente congeniale alla temibile matrice del
cattofascismo. C’e’ da guardare con preoccupazione autentica il rimbalzo
nostalgico della destra “tradita” da Fini.
Spero che, nonostante lo stile rapsodico, non sfugga il senso di questo
lungo e faticoso ragionamento. La sensibilita’ digitale puo’ ancora uscire
dal frame, non ha perso la sua qualita’ alternativa, non ha perso la
capacita’ di offire tasti di “escape”.
La nostra difficolta’ e’ piuttosto nel riuscire a passare una scala, una
corda, un gancio alla generazione videolettronica. Non ci riusciamo perche’
siamo esacerbati dagli eventi storico-politici, dalla pessima qualita’
della vita che conduciamo (parlo per me), dalla difficolta’ crescente che
incontriamo nel tenere il passo con la tecnologia.
Eppure accade che, guardando il TG1 dell’una, di fronte alla figura di
Francesco Giorgino che si presenta con una cravatta che fa ribrezzo
spiaccicata intorno al collo sullo sfondo di un gessato che manco Al
Capone…beh mi dico che no, questi non ce la possono fare. Conviene
pensare l’impero Neocon come un brutto sogno. Che finira’. Che e’ destinato
a finire.
rattus
http://rekombinant.org http://rekombinant.org/media-activism
Mi sembra di rilevare una certa disaffezione nei confronti degli spazi aperti dal digitale e piu’ in generale dall’informatica. Stanchezza?
Preoccupazione per le derive securtarie ? Orrore panottico per l’isolamento sociale indotto dalla tecnologia ?
Ognuno di questi interrogativi merita attenzione.