MILANO. “La bomba della strage di piazza Fontana l’ho messa io. È una nostra operazione”. È Delfo Zorzi che parla: una confessione mai fatta ai giudici, ma a un amico, un camerata. Questi, molti anni dopo, l’ha raccontata ai magistrati. Insieme a tanti altri elementi, quella confidenza ha portato all’ultima sentenza su piazza Fontana, alla fine dell’ennesimo processo (l’ottavo) di una storia infinita. Zorzi è stato condannato, insieme ai “neri” Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni.
Zorzi, militante della cellula veneta di Ordine nuovo, miscela esplosiva di misticismo orientale e spietatezza nazista, oggi ha una cinquantina d’anni, vive a Tokio, è miliardario, non ha affatto rinnegato i suoi “ideali” di un tempo. Ama ancora il misticismo, crede ancora nel nazismo. Come allora. Come durante quella oscura stagione delle bombe nere, a cavallo tra gli anni Sessanta e i Settanta. Ma oggi è stato costretto a uscire dall’ombra, “tradito” dai vecchi camerati che dopo tanti anni hanno osato fare il suo nome. A snidarlo è stato un giudice con la faccia da ragazzo, che ha condotto l’ultima istruttoria sull’eversione di destra a Milano. Guido Salvini il giorno della strage di piazza Fontana, il 12 dicembre 1969, aveva 14 anni, era uno studente di quarta ginnasio del liceo Manzoni di Milano. Negli anni seguenti distribuiva agli studenti, all’uscita dalle lezioni, volantini firmati Collettivo socialista libertario, con una grossa A cerchiata: il simbolo dell’Anarchia. Parlavano di antimilitarismo e autogestione.
Al Manzoni negli anni Settanta lo scontro nelle assemblee era tra quella che allora era chiamata “sinistra rivoluzionaria” (Movimento studentesco, Lotta continua, altri collettivi) e il Quarto gruppo (i moderati, i liberali; “i fascisti”, dicevano senza andare troppo per il sottile quelli di sinistra, e qualche volta avevano anche ragione). Lui, Salvini, era uno degli animatori di un piccolo collettivo che si rifaceva al sindacalismo anarchico della guerra civile spagnola ma, in controtendenza rispetto al clima infuocato di quegli anni, aveva scarso amore per le ideologie e nessun riferimento organizzativo esterno al liceo. Un cane sciolto, un indipendente, già allora. Chissà quante volte, senza saperlo, ha visto in faccia i suoi indagati di oggi, i neri del circolo La Fenice, i fascisti del gruppo Alfa, che dalla vicina università Cattolica (avevano la sede in via San Pio V) venivano ogni tanto a distribuire volantini agli studenti del “rosso” ManzoniŠ
Alcuni decenni dopo, ha riaperto una partita che si credeva chiusa. Indagando sui “neri” di Milano degli anni Sessanta e Settanta, ha ritessuto i fili delle conoscenze sull’eversione. Nel corso di tre decenni, un piccolo gruppo di magistrati ha accumulato una montagna di conoscenze sulla strategia delle stragi. Sono nomi da ricordare, perché hanno lavorato tra difficoltà immense, attacchi, minacce, depistaggi e spesso hanno avuto la vita segnata: Giancarlo Stiz a Treviso, Giovanni Tamburino e Pietro Calogero a Padova, Gerardo D’Ambrosio ed Emilio Alessandrini a Milano, Emilio Ledonne a Catanzaro, Domenico Vino, Francesco Trovato, Gianpaolo Zorzi a Brescia, Rosario Minna, Claudio Nunziata, Libero Mancuso a Bologna, Carlo Mastelloni e Felice Casson a VeneziaŠ
Ora si sa tutto, o quasi. Si conosce il disegno della strategia eversiva: in Italia è stata combattuta una guerra non dichiarata e non convenzionale contro il comunismo, una “guerra non ortodossa”, come dicono i tecnici, “low intensity war”, un conflitto a bassa intensità; le bombe e le stragi, da imputare ai “rossi”, servivano come innesco per realizzare, o minacciare, una svolta autoritaria, o comunque per stabilizzare la situazione politica e sociale, impedendo aperture a sinistra. Protagonisti di questa guerra: gli apparati istituzionali preposti alla sicurezza, sotto ombrello atlantico, che per i “lavori sporchi” si servivano dei gruppi neonazisti. Se il quadro è ormai chiaro, mancano però le responsabilità specifiche: trent’anni di depistaggi istituzionali hanno nella maggior parte dei casi impedito non di individuare, ma di condannare i responsabili delle stragi.
Salvini ha pazientemente ripreso a tessere la tela preparata dai suoi predecessori, ha individuato qualche responsabile della strage di piazza Fontana e l’ha passato alla procura della Repubblica, ai pubblici ministeri Massimo Meroni e Grazia Pradella che nel luglio 2001 hanno ottenuto le condanne di primo grado. Ha così qualche colpevole, 32 anni dopo, l’attentato alla Banca nazionale dell’agricoltura che costò 16 morti e 88 feriti. Fu la madre di tutte le stragi, l’inizio della stagione delle bombe, il via alla “guerra non ortodossa” combattuta da un esercito invisibile: otto stragi tra il 1969 e il 1984, 150 morti, oltre 600 feriti. Una ferita alla democrazia ancora non rimarginata.
Il samurai
Zorzi è ingrassato, rispetto alle foto che lo ritraggono negli anni Settanta. Ha perduto i capelli sulle tempie. Ma la tempra non è mutata. “Aveva un carattere molto forte, spesso duro”, racconta un suo camerata, Martino Siciliano, che ha collaborato con il giudice Salvini. “Era molto manesco e privo di quelle reazioni che in molti di noi sorgevano alla vista del sangue durante i pestaggi. Zorzi infatti si occupava personalmente anche delle punizioni da infliggere ai camerati…”.
Da vero “soldato politico”, però, univa palestra e letture. “Aveva un carattere chiuso, introverso, molto riservato. Portato quasi a una specie di misticismo. Fu lui infatti a far scoprire ad altri camerati di Ordine nuovo di Mestre, come a me stesso, il buddismo. Nonché autori del calibro di Evola, Guenon, Steiner e altri”.
Libri e karate, racconta Siciliano. “Era una persona determinata e capace di mantenere un autocontrollo notevolissimo. Per questo era stato scelto come canale privilegiato tra Maggi e il gruppo di Mestre”. Carlo Maria Maggi, medico, è il capo di Ordine nuovo nel Veneto, l’organizzazione fondata da Pino Rauti. Zorzi diventa ben presto il braccio destro di Maggi. Giorgio Almirante, il leader del Movimento sociale italiano (il partito da cui è nata Alleanza nazionale), gli offre anche un posto nella direzione nazionale del Fronte della gioventù, l’organizzazione giovanile del Msi. Ma Delfo preferisce il lavoro periferico, il combattimento sul campo.
In via Felisati, a Mestre, aveva aperto una piccola palestra con un nome giapponese: Ronin Kaj. Vale a dire: “Il samurai errante”. Lui, cintura nera di karate, vi insegnava arti marziali ma anche mistica zen, occultismo, parapsicologia. Studiava giapponese all’Istituto orientale di Napoli, dove si è laureato in lingua e letteratura giapponese con una tesi sul fascismo nipponico.
Nel 1972 i giudici Giancarlo Stiz a Treviso, Gerardo D’Ambrosio ed Emilio Alessandrini a Milano cominciano a seguire la “pista nera”: non l’anarchico Pietro Valpreda, subito offerto in pasto all’opinione pubblica come “la belva umana”, ma l’ambiente neofascista è l’incubatore delle bombe. Zorzi capisce che è tempo di cambiare aria: si trasferisce nell’amato Giappone.
Lo aiuta Romano Vulpitta, diplomatico, orientalista, uomo di destra, che a Tokio gli mette a disposizione i suoi ottimi rapporti con il ministero degli Esteri e la Comunità europea. Così Zorzi impianta una rete di import-export: pesce, marmo di Carrara, mobili, materiale elettronico, poi soprattutto moda. Diventa ambasciatore in Giappone del made in Italy. Funziona, ha successo. Diventa miliardario.
Tanto che è lui, nel 1991, a prestare da un giorno all’altro 30 miliardi a Maurizio Gucci, rampollo di una dinastia al tramonto. Gucci aveva un bisogno disperato di soldi per tentare di salvare l’azienda e il marchio dalla scalata dei soci arabi. “Li ho trovati sotto una mattonella”, ha dichiarato all’epoca, “una mattonella che mi è stata indicata in sogno da mio padre morto”. Quella mattonella si chiamava Delfo Zorzi. Tre mesi dopo, Gucci gli restituisce 37 miliardi. Un prestito a tassi da usura. Non servirà comunque a fargli conservare l’impero delle borsette: Maurizio perde l’azienda, tenta altre strade, si butta infine in un grande affare, costruire casinò in Svizzera. Poi nel 1995 finisce la sua avventura ammazzato sotto casa, in via Palesto a Milano. Mandante dell’omicidio, la sua ex moglie. Zorzi il samurai continua intanto i suoi commerci miliardari. Ma è inseguito dal suo passato. Dopo oltre due decenni, i suoi camerati cominciano a parlare. Era il 31 dicembre 1970, la notte di capodanno dopo la strage. A Mestre si ritrovano tre camerati, Zorzi, Siciliano e Giancarlo Vianello. Festa in stile nazionalrivoluzionario: donne, birra, inni hitleriani suonati sul giradischi.
A un certo punto, tra un canto e l’altro, Siciliano e Vianello toccano il tema del momento: la bomba scoppiata a Milano pochi giorni prima, nella sede della Banca nazionale dell’agricoltura. “Zorzi prese il discorso molto alla larga”, racconta Siciliano a Salvini. “Disse che non dovevamo pensare che per un nazionalrivoluzionario la morte di qualche persona potesse costituire una remora sulla strada della rivoluzione. Fece gli esempi di Dresda e Hiroshima in cui vi erano stati bombardamenti sulle popolazioni inermi e in questi casi neppure il nemico aveva avuto remore a fare centinaia di migliaia di vittime. Ci ricordò che, secondo i nostri grandi teorici, anche il sangue poteva essere motore di una rivoluzione che, partendo dall’Italia, avrebbe salvato l’Europa difendendola dal comunismo”.
Alla fine di questa premessa, Delfo si apre: “Ci fece chiaramente intendere che gli anarchici non c’entravano per nulla e che erano presi come capro espiatorio per il fatto che, per i loro precedenti come bombaroli, un’accusa nei loro confronti era credibile. In realtà gli attentati di Milano e Roma erano stati pensati e commissionati ad alto livello e materialmente eseguiti da Ordine nuovo del Triveneto”.
Ordine nuovo del Triveneto, rimugina Siciliano, significa Maggi, Zorzi, Franco Freda, Giovanni Ventura, Massimiliano Fachini, Roberto Raho…
Dopo poche settimane, agli inizi del 1970, Zorzi incontra a Mestre un altro camerata, Carlo Digilio, grande passione per le armi, chiamato Zio Otto per il vero amore che mostrava per la sua compagna preferita, la pistola Otto Lebel. “Con un moto d’orgoglio Delfo Zorzi mi disse che aveva partecipato all’azione di Milano e che nonostante tutti quei morti, che erano dovuti a un errore, l’azione era stata importante perché aveva ridato forza alla destra e colpito le sinistre nel Paese”. Digilio fa mettere a verbale queste parole esattamente ventisei anni dopo, il 20 gennaio 1996, seduto davanti al giudice Salvini. Nel 1973, racconta Digilio, Zorzi tornò con lui sull’argomento: “Mi disse testualmente: “Guarda che io ho partecipato direttamente all’operazione di collocazione della bomba alla Banca nazionale dell’agricoltura”. Queste furono testualmente le sue parole, che ricordo ancora bene, anche per la loro gravità. Zorzi non parlò né di morti né di strage, ma usò il termine “operazione”, come se si fosse trattato di un’operazione di guerra. Aggiunse: “Me ne sono occupato personalmente e non è stata una cosa facile””. Un’operazione di guerra: c’era da fermare l’Autunno caldo delle agitazioni operaie, c’era da bloccare il Sessantotto della rivolta studentesca.Senza troppi rischi: scatta una rete istituzionale di coperture e depistaggi e in galera viene subito rinchiuso Pietro Valpreda, anarchico, ballerino. Il “mostro” da sbattere in prima pagina, la “belva umana” che al tg della sera un giovane Bruno Vespa presenta a un’Italia non ancora abituata all’orrore. L’avvocato Gaetano Pecorella in quegli anni difendeva i militanti del Movimento studentesco, che manifestavano per le vie di Milano gridando: “Valpreda è innocente, la strage è di Stato”. Continua
Oggi (quanto tempo è passato!) Pecorella è difensore di Delfo Zorzi, oltre che deputato di Forza Italia. E smentisce con zelo le notizie di stampa che riguardano il proprio cliente. Zorzi non c’entra nulla con l’organizzazione Siegfried, un gruppo armato in contatto con apparati dello Stato, composto prevalentemente da ex repubblichini e da ex carabinieri. Zorzi non c’entra nulla con la Yacuza, la potente mafia giapponese. E Zorzi, naturalmente, non c’entra nulla con la bomba di piazza Fontana. “Il 12 dicembre 1969 era a Napoli, all’università”.
Delfo sognava una razza superiore, da ottenere incrociando ariani e nipponici. Per parte sua, ha già dato un contributo: a Tokio ha sposato una donna giapponese, che gli ha messo al mondo una bambina con gli occhi a mandorla.
L’elettricista
Pochi giorni prima del 12 dicembre 1969 il gruppo dei veneti di Ordine nuovo si ritrova in Friuli. Prepara l’esplosivo: candelotti di gelignite in carta rossa, che saranno usati per la strage di Milano, per i contemporanei attentati di Milano e Roma e, prima di questi, per i due attentati messi a segno da Siciliano e Zorzi alla scuola Slovena di Trieste e al cippo di confine tra Italia e Jugoslavia a Gorizia.
I timer per le bombe, costo 80 mila lire, sono acquistati il 15 settembre 1969 da Franco Freda a Bologna, presso la ditta Elettrocontrolli. Per scegliere i prodotti giusti e preparare l’innesco, Freda chiede aiuto a Tullio Fabris, un elettricista di Padova. “Nel secondo semestre del 1968 la signora Freda, mia cliente, mi chiese telefonicamente se ero disponibile ad andare a montare due plafoniere nell’ufficio del figlio, avvocato”. Comincia così, per caso, l’incredibile avventura di Fabris, bombarolo senza saperlo. “Freda mi disse che volevano lanciare dei missili”. Forse dei fuochi d’artificio, pensa l’elettricista, che dopo aver accompagnato Freda alla Elettrocontrolli di Bologna inizia un vero e proprio corso accelerato a Freda e Ventura.
La prima lezione si tiene nello studio di Freda, a Padova: Fabris insegna a collegare una batteria, un filo al nichel-cromo, un fiammifero antivento. Il fiammifero s’incendia, l’esperimento è riuscito. La seconda lezione è tutta teorica: “Un colloquio”, ha raccontato Fabris a Salvini, “nel corso del quale mi fu chiesto come il congegno elettrico provato in precedenza potesse essere collegato a un timer, giustificando ciò con il ritardo che bisognava dare alla partenza di più missili”. La terza lezione è la prova generale: Fabris, Freda e Ventura collegano il congegno al timer. La bomba è pronta.
Il 12 dicembre a Roma e a Milano sono collocati cinque ordigni, tra cui quello micidiale di piazza Fontana. A Milano entrano in azione i veneti di Ordine nuovo, nella capitale i romani di Avanguardia nazionale, guidati da Stefano Delle Chiaie, “er Caccola”.
Il gruppo milanese La Fenice di Giancarlo Rognoni offre il supporto logistico: mette a disposizione una base nei pressi di piazza Fontana, dove viene avviato il timer della bomba, e prepara un’azione di copertura, con un sosia di Valpreda, forse il fascista Nino Sottosanti, che fa un giro in taxi, per poter incastrare il colpevole designato. Forse Rognoni in persona si occupa del secondo attentato, quello alla Banca commerciale italiana di piazza Scala, dove la bomba non scoppia.
Trent’anni dopo, è difficile che tutta la verità si possa affermare in un tribunale. Freda e Ventura sono ormai improcessabili, perché già assolti in via definitiva. Assolto anche Massimiliano Fachini, esponente veneto di Ordine nuovo, organizzatore nel 1973 di un viaggio che portò una trentina di neofascisti ad addestrarsi per un mese in un campo dei cristiano-maroniti in Libano. Fachini, comunque, qualche anno fa è morto in un incidente stradale.
Assolti definitivamente, e dunque improcessabili, anche i romani Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia nazionale, e il suo camerata Mario Merlino (è a lui che si riferisce un appunto del Sid del 1969, in cui è scritto che “suo padre è amico del direttore della Banca dell’agricoltura di Milano”).
Curiosa situazione: in Italia, dopo la sentenza del luglio 2001, circolano persone che sono come i centauri, né pienamente uomini, né interamente cavalli: dentro la storia delle stragi, ma innocenti per sentenza di Stato.
Candannati all’ergastolo, invece, Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Giancarlo Rognoni. Zorzi è in Giappone, imprendibile. E poi: molte sono ancora le responsabilità, le complicità, i depistaggi da chiarire. Ma oggi è finalmente possibile almeno ricostruire le vicende di quella stagione, individuare i protagonisti di quella guerra. Per la storia, se non per i tribunali.
L’amerikano
Nell’estate 1969 un gruppo di ordinovisti veneti si ritrova in un casolare di Paese, nei pressi di Treviso. Ci sono Zorzi, Ventura, Marco Pozzan. E Carlo Digilio, Zio Otto. Il gruppo prepara l’esplosivo per gli attentati. È stato proprio Zio Otto a procurare la gelignite, mediando l’acquisto per conto di Zorzi. Il venditore è Roberto Rotelli, un veneziano che, pur non disdegnando il contrabbando, di mestiere organizza i recuperi di materiali rimasti su navi affondate e dunque ha sempre a disposizione gli esplosivi che gli servono per far saltare, all’occorrenza, fiancate e paratie. Zio Otto cerca di darsi da fare anche per insegnare ai camerati l’utilizzo di timer e candelotti.
Ma più di vent’anni dopo, colpo di scena. Salvini scopre un altro nome in codice dell’indaffaratissimo Zio Otto: Erodoto. E un’altra sua identità segreta: “Digilio Carlo iniziò la sua attività nel 1967, quando subentrò a suo padre Michelangelo nel ruolo di fiduciario Cia nel Veneto. Il nome in codice Erodoto, che fu del padre, venne da lui ripreso alla morte di questi”. Così scrive il capitano Massimo Giraudo nel rapporto del maggio 1996 realizzato dal Ros (Raggruppamento operativo speciale) dei carabinieri. “L’attività del Digilio Carlo si concretizzò principalmente nel Triveneto, anche se non mancarono incarichi per missioni all’estero”.
Dunque Digilio, alias Zio Otto, alias Erodoto, era un agente della Cia in Italia. Faceva parte del gruppo ordinovista veneto, maneggiava esplosivi, detonatori e timer, e poi redigeva diligenti relazioni ai suoi superiori. Che si sono ben guardati dall’intervenire per bloccare i bombaroli o almeno per fornire ai magistrati italiani elementi utili per le indagini.
Digilio negli anni scorsi era riparato a Santo Domingo e ancora nel 1992 aveva lavorato per gli americani: arruolava esuli cubani da impiegare nella lotta contro Fidel Castro. Poi è stato abbandonato, arrestato, espulso, rimandato in Italia. Qui ha cominciato a collaborare con il giudice Salvini, ricostruendo la catena di comando Cia in cui era inserito.
Suo superiore diretto era Sergio Minetto, che oggi ha passato i settant’anni, ex combattente della Repubblica di Salò, aderente all’associazione combattentistica Sthalhelmen (“Elmetti d’acciaio”), diventato capo-rete Cia per il Triveneto. “I suoi superiori di nazionalità statunitense inseriti all’interno delle basi Nato”, è scritto nel rapporto del Ros, “furono il capitano David Carrett, a suo dire di stanza dal 1966 al 1974 presso la base Ftase di Verona, e il capitano Theodore Richard detto Teddy, di stanza dal 1974 al 1978 presso la base Setaf di Vicenza. Entrambi gli ufficiali facevano parte della Us Navy, la Marina militare Usa”.
Sopra i capitani, secondo Digilio, c’era il colonnello Frederick Tepaski, uomo Cia di stanza in una base Nato della Germania federale. Dei diciannove agenti Cia attivi in Italia e identificati, quattro (Carlo Digilio, Sergio Minetto, Giovanni Bandoli, Robert Edward Jones) hanno ricevuto un avviso di garanzia per spionaggio politico e militare, articolo 257 del codice penale. Prevede pene pesanti: da 15 anni di reclusione fino all’ergastolo. Ma il giudice li ha dovuti assolvere: non è spionaggio “lavorare” per un Paese alleato.
Salvini ha indagato anche sull’Aginter press, l’agenzia con sede a Lisbona che sotto la guida di Yves Guerin Serac lavorava per conto della Cia: aveva il compito di sviluppare la teoria della “guerra non ortodossa” contro il comunismo, di diffonderla e di preparare i “soldati politici” pronti a entrare in azione nei diversi paesi. Le stragi, da attribuire alla sinistra, dovevano creare una situazione di disordine a cui sarebbe seguita una vasta richiesta di ordine (“destabilizzare per stabilizzare”).
Un intervento militare di tipo golpista era infatti previsto nel 1970 al culmine della stagione delle bombe, con manovalanza fascista, gestione istituzionale, copertura Nato. Tutt’altro che un golpe da operetta. Uno personaggio di nome Licio Gelli, allora assolutamente sconosciuto, aveva un ruolo importante in quel piano: il suo compito era di sequestrare il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat.
Un piano simile fu approntato per il giugno 1973: l'”Operazione Patria”, con pronti a intervenire i Nuclei difesa territoriale, 36 legioni, 1.500 uomini, il cuore nero di Gladio. Il golpe poi non ci fu, le stragi sì. Ma il risultato fu comunque in gran parte raggiunto: “destabilizzare per stabilizzare”.
Conclude il rapporto del Ros: “Non si comprende perché gli Stati Uniti non abbiano nell’immediatezza della strage fornito a un loro alleato elementi utili per addivenire all’identificazione degli autori del grave fatto di sangue”.
La spia-gourmet
Subito dopo la bomba entrano in azione coloro che devono gestire la strage. L’Ufficio Affari Riservati del ministero dell’Interno, diretto da Federico Umberto D’Amato (ministri in quegli anni neri furono Franco Restivo, poi Mariano Rumor, poi Paolo Emilio Taviani…), era il servizio segreto civile, progenitore del Sisde. Ebbene, quell’ufficio non solo era in stretto contatto con Guerin Serac e Delle Chiaie (entrambi ebbero incontri con D’Amato, il secondo da latitante incontrò segretamente all’estero anche Francesco Cossiga), ma aveva tra i suoi informatori anche Delfo Zorzi.
D’Amato, spia-gourmet che ai tempi curava una raffinata rubrica gastronomica (“Gault Millau”) sul settimanale L’Espresso, aveva già infiltrato propri uomini e ingredienti nel pentolone dei gruppi anarchici, per preparare la caccia al colpevole designato. Viene infatti subito arrestato Valpreda, di cui gli ordinovisti avevano esibito un sosia (come sarebbe stato possibile, senza un accordo preventivo?). La Squadra Politica della Questura di Milano (responsabile Antonino Allegra) ferma il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, che poi cade dalla finestra della questura e muore.
D’altro lato il Sid, il servizio segreto militare diretto prima dall’ammiraglio Eugenio Henke e poi dal generale Vito Miceli, prepara i depistaggi per coprire i veri responsabili. Ministri della Difesa in quegli anni furono Luigi Gui, Mario Tanassi, Franco Restivo, Giulio Andreotti…
L’ex ministro dell’Interno Tanassi, prima di morire, ha raccontato: “La sera del 12 dicembre 1969 il dottor Fusco, un agente di tutto rispetto del Sid, defunto negli anni Ottanta, stava per partire per Milano con l’ordine di impedire attentati. A Fiumicino seppe dalla radio che una bomba era scoppiata. Da Padova a Milano si mosse, per depistare le colpe verso la sinistra, un ufficiale del Sid, Del Gaudio. Questi due dati sono indizi, se non prove, di atteggiamenti contrastanti nello stesso Sid. In alcuni settori del Sid e dell’Arma di Milano e di Padova vi furono deviazioni”.
Un giovane e promettente sottosegretario alla Difesa con delega ai servizi segreti (si chiamava Francesco Cossiga) ebbe un ruolo chiave. Fra l’altro curò gli omissis da apportare ai dossier sul progettato golpe da far scattare dopo le stragi, coprendo il ruolo di alcuni personaggi da salvare: tra questi, Licio Gelli.
Ma tutto ciò, il livello politico e istituzionale, non ha potuto entrare nel processo per piazza Fontana. La politica ha fatto e continua a fare barriera. La verità, nella sua interezza, è affidata ora agli storici. O consegnata ai capricci della memoria: che custodisce i ricordi nel tempo dell’indignazione, e poi li abbandona nel tempo della smemoratezza.
“La giustizia vuole più dolore che collera”, scriveva Hannah Arendt nel 1961, all’apertura del processo al nazista Adolf Eichmann a Gerusalemme. Dice il magistrato Gherardo Colombo: “Forse noi magistrati non siamo riusciti finora a raggiungere tutta la verità sulle stragi anche perché i cittadini attorno a noi erano, alla fine, indifferenti, anzi forse addirittura timorosi di coltivare la memoria e di conoscerla, la verità: per paura di dover mettere in crisi le loro tranquille convinzioni”. La verità fa paura, quando è troppo orribile.
Oggi (quanto tempo è passato!) Pecorella è difensore di Delfo Zorzi, oltre che deputato di Forza Italia. E smentisce con zelo le notizie di stampa che riguardano il proprio cliente. Zorzi non c’entra nulla con l’organizzazione Siegfried, un gruppo armato in contatto con apparati dello Stato, composto prevalentemente da ex repubblichini e da ex carabinieri. Zorzi non c’entra nulla con la Yacuza, la potente mafia giapponese. E Zorzi, naturalmente, non c’entra nulla con la bomba di piazza Fontana. “Il 12 dicembre 1969 era a Napoli, all’università”. Delfo sognava una razza superiore, da ottenere incrociando ariani e nipponici. Per parte sua, ha già dato un contributo: a Tokio ha sposato una donna giapponese, che gli ha messo al mondo una bambina con gli occhi a mandorla.
L’elettricista
Pochi giorni prima del 12 dicembre 1969 il gruppo dei veneti di Ordine nuovo si ritrova in Friuli. Prepara l’esplosivo: candelotti di gelignite in carta rossa, che saranno usati per la strage di Milano, per i contemporanei attentati di Milano e Roma e, prima di questi, per i due attentati messi a segno da Siciliano e Zorzi alla scuola Slovena di Trieste e al cippo di confine tra Italia e Jugoslavia a Gorizia.
I timer per le bombe, costo 80 mila lire, sono acquistati il 15 settembre 1969 da Franco Freda a Bologna, presso la ditta Elettrocontrolli. Per scegliere i prodotti giusti e preparare l’innesco, Freda chiede aiuto a Tullio Fabris, un elettricista di Padova. “Nel secondo semestre del 1968 la signora Freda, mia cliente, mi chiese telefonicamente se ero disponibile ad andare a montare due plafoniere nell’ufficio del figlio, avvocato”. Comincia così, per caso, l’incredibile avventura di Fabris, bombarolo senza saperlo. “Freda mi disse che volevano lanciare dei missili”. Forse dei fuochi d’artificio, pensa l’elettricista, che dopo aver accompagnato Freda alla Elettrocontrolli di Bologna inizia un vero e proprio corso accelerato a Freda e Ventura. La prima lezione si tiene nello studio di Freda, a Padova: Fabris insegna a collegare una batteria, un filo al nichel-cromo, un fiammifero antivento. Il fiammifero s’incendia, l’esperimento è riuscito. La seconda lezione è tutta teorica: “Un colloquio”, ha raccontato Fabris a Salvini, “nel corso del quale mi fu chiesto come il congegno elettrico provato in precedenza potesse essere collegato a un timer, giustificando ciò con il ritardo che bisognava dare alla partenza di più missili”. La terza lezione è la prova generale: Fabris, Freda e Ventura collegano il congegno al timer. La bomba è pronta. Il 12 dicembre a Roma e a Milano sono collocati cinque ordigni, tra cui quello micidiale di piazza Fontana. A Milano entrano in azione i veneti di Ordine nuovo, nella capitale i romani di Avanguardia nazionale, guidati da Stefano Delle Chiaie, “er Caccola”. Il gruppo milanese La Fenice di Giancarlo Rognoni offre il supporto logistico: mette a disposizione una base nei pressi di piazza Fontana, dove viene avviato il timer della bomba, e prepara un’azione di copertura, con un sosia di Valpreda, forse il fascista Nino Sottosanti, che fa un giro in taxi, per poter incastrare il colpevole designato. Forse Rognoni in persona si occupa del secondo attentato, quello alla Banca commerciale italiana di piazza Scala, dove la bomba non scoppia. Trent’anni dopo, è difficile che tutta la verità si possa affermare in un tribunale. Freda e Ventura sono ormai improcessabili, perché già assolti in via definitiva. Assolto anche Massimiliano Fachini, esponente veneto di Ordine nuovo, organizzatore nel 1973 di un viaggio che portò una trentina di neofascisti ad addestrarsi per un mese in un campo dei cristiano-maroniti in Libano. Fachini, comunque, qualche anno fa è morto in un incidente stradale. Assolti definitivamente, e dunque improcessabili, anche i romani Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia nazionale, e il suo camerata Mario Merlino (è a lui che si riferisce un appunto del Sid del 1969, in cui è scritto che “suo padre è amico del direttore della Banca dell’agricoltura di Milano”).
Curiosa situazione: in Italia, dopo la sentenza del luglio 2001, circolano persone che sono come i centauri, né pienamente uomini, né interamente cavalli: dentro la storia delle stragi, ma innocenti per sentenza di Stato. Candannati all’ergastolo, invece, Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Giancarlo Rognoni. Zorzi è in Giappone, imprendibile. E poi: molte sono ancora le responsabilità, le complicità, i depistaggi da chiarire. Ma oggi è finalmente possibile almeno ricostruire le vicende di quella stagione, individuare i protagonisti di quella guerra. Per la storia, se non per i tribunali
L’amerikano
Nell’estate 1969 un gruppo di ordinovisti veneti si ritrova in un casolare di Paese, nei pressi di Treviso. Ci sono Zorzi, Ventura, Marco Pozzan. E Carlo Digilio, Zio Otto. Il gruppo prepara l’esplosivo per gli attentati. È stato proprio Zio Otto a procurare la gelignite, mediando l’acquisto per conto di Zorzi. Il venditore è Roberto Rotelli, un veneziano che, pur non disdegnando il contrabbando, di mestiere organizza i recuperi di materiali rimasti su navi affondate e dunque ha sempre a disposizione gli esplosivi che gli servono per far saltare, all’occorrenza, fiancate e paratie. Zio Otto cerca di darsi da fare anche per insegnare ai camerati l’utilizzo di timer e candelotti.
Ma più di vent’anni dopo, colpo di scena. Salvini scopre un altro nome in codice dell’indaffaratissimo Zio Otto: Erodoto. E un’altra sua identità segreta: “Digilio Carlo iniziò la sua attività nel 1967, quando subentrò a suo padre Michelangelo nel ruolo di fiduciario Cia nel Veneto. Il nome in codice Erodoto, che fu del padre, venne da lui ripreso alla morte di questi”. Così scrive il capitano Massimo Giraudo nel rapporto del maggio 1996 realizzato dal Ros (Raggruppamento operativo speciale) dei carabinieri. “L’attività del Digilio Carlo si concretizzò principalmente nel Triveneto, anche se non mancarono incarichi per missioni all’estero”. Dunque Digilio, alias Zio Otto, alias Erodoto, era un agente della Cia in Italia. Faceva parte del gruppo ordinovista veneto, maneggiava esplosivi, detonatori e timer, e poi redigeva diligenti relazioni ai suoi superiori. Che si sono ben guardati dall’intervenire per bloccare i bombaroli o almeno per fornire ai magistrati italiani elementi utili per le indagini.
Digilio negli anni scorsi era riparato a Santo Domingo e ancora nel 1992 aveva lavorato per gli americani: arruolava esuli cubani da impiegare nella lotta contro Fidel Castro. Poi è stato abbandonato, arrestato, espulso, rimandato in Italia. Qui ha cominciato a collaborare con il giudice Salvini, ricostruendo la catena di comando Cia in cui era inserito. Suo superiore diretto era Sergio Minetto, che oggi ha passato i settant’anni, ex combattente della Repubblica di Salò, aderente all’associazione combattentistica Sthalhelmen (“Elmetti d’acciaio”), diventato capo-rete Cia per il Triveneto. “I suoi superiori di nazionalità statunitense inseriti all’interno delle basi Nato”, è scritto nel rapporto del Ros, “furono il capitano David Carrett, a suo dire di stanza dal 1966 al 1974 presso la base Ftase di Verona, e il capitano Theodore Richard detto Teddy, di stanza dal 1974 al 1978 presso la base Setaf di Vicenza. Entrambi gli ufficiali facevano parte della Us Navy, la Marina militare Usa”. Sopra i capitani, secondo Digilio, c’era il colonnello Frederick Tepaski, uomo Cia di stanza in una base Nato della Germania federale. Dei diciannove agenti Cia attivi in Italia e identificati, quattro (Carlo Digilio, Sergio Minetto, Giovanni Bandoli, Robert Edward Jones) hanno ricevuto un avviso di garanzia per spionaggio politico e militare, articolo 257 del codice penale. Prevede pene pesanti: da 15 anni di reclusione fino all’ergastolo. Ma il giudice li ha dovuti assolvere: non è spionaggio “lavorare” per un Paese alleato.
Salvini ha indagato anche sull’Aginter press, l’agenzia con sede a Lisbona che sotto la guida di Yves Guerin Serac lavorava per conto della Cia: aveva il compito di sviluppare la teoria della “guerra non ortodossa” contro il comunismo, di diffonderla e di preparare i “soldati politici” pronti a entrare in azione nei diversi paesi. Le stragi, da attribuire alla sinistra, dovevano creare una situazione di disordine a cui sarebbe seguita una vasta richiesta di ordine (“destabilizzare per stabilizzare”).
Un intervento militare di tipo golpista era infatti previsto nel 1970 al culmine della stagione delle bombe, con manovalanza fascista, gestione istituzionale, copertura Nato. Tutt’altro che un golpe da operetta. Uno personaggio di nome Licio Gelli, allora assolutamente sconosciuto, aveva un ruolo importante in quel piano: il suo compito era di sequestrare il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat.
Un piano simile fu approntato per il giugno 1973: l'”Operazione Patria”, con pronti a intervenire i Nuclei difesa territoriale, 36 legioni, 1.500 uomini, il cuore nero di Gladio. Il golpe poi non ci fu, le stragi sì. Ma il risultato fu comunque in gran parte raggiunto: “destabilizzare per stabilizzare”. Conclude il rapporto del Ros: “Non si comprende perché gli Stati Uniti non abbiano nell’immediatezza della strage fornito a un loro alleato elementi utili per addivenire all’identificazione degli autori del grave fatto di sangue”.
La spia-gourmet
Subito dopo la bomba entrano in azione coloro che devono gestire la strage. L’Ufficio Affari Riservati del ministero dell’Interno, diretto da Federico Umberto D’Amato (ministri in quegli anni neri furono Franco Restivo, poi Mariano Rumor, poi Paolo Emilio Taviani…), era il servizio segreto civile, progenitore del Sisde. Ebbene, quell’ufficio non solo era in stretto contatto con Guerin Serac e Delle Chiaie (entrambi ebbero incontri con D’Amato, il secondo da latitante incontrò segretamente all’estero anche Francesco Cossiga), ma aveva tra i suoi informatori anche Delfo Zorzi.
D’Amato, spia-gourmet che ai tempi curava una raffinata rubrica gastronomica (“Gault Millau”) sul settimanale L’Espresso, aveva già infiltrato propri uomini e ingredienti nel pentolone dei gruppi anarchici, per preparare la caccia al colpevole designato. Viene infatti subito arrestato Valpreda, di cui gli ordinovisti avevano esibito un sosia (come sarebbe stato possibile, senza un accordo preventivo?). La Squadra Politica della Questura di Milano (responsabile Antonino Allegra) ferma il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, che poi cade dalla finestra della questura e muore.
D’altro lato il Sid, il servizio segreto militare diretto prima dall’ammiraglio Eugenio Henke e poi dal generale Vito Miceli, prepara i depistaggi per coprire i veri responsabili. Ministri della Difesa in quegli anni furono Luigi Gui, Mario Tanassi, Franco Restivo, Giulio AndreottiŠ
L’ex ministro dell’Interno Tanassi, prima di morire, ha raccontato: “La sera del 12 dicembre 1969 il dottor Fusco, un agente di tutto rispetto del Sid, defunto negli anni Ottanta, stava per partire per Milano con l’ordine di impedire attentati. A Fiumicino seppe dalla radio che una bomba era scoppiata. Da Padova a Milano si mosse, per depistare le colpe verso la sinistra, un ufficiale del Sid, Del Gaudio. Questi due dati sono indizi, se non prove, di atteggiamenti contrastanti nello stesso Sid. In alcuni settori del Sid e dell’Arma di Milano e di Padova vi furono deviazioni”. Un giovane e promettente sottosegretario alla Difesa con delega ai servizi segreti (si chiamava Francesco Cossiga) ebbe un ruolo chiave. Fra l’altro curò gli omissis da apportare ai dossier sul progettato golpe da far scattare dopo le stragi, coprendo il ruolo di alcuni personaggi da salvare: tra questi, Licio Gelli. Ma tutto ciò, il livello politico e istituzionale, non ha potuto entrare nel processo per piazza Fontana. La politica ha fatto e continua a fare barriera. La verità, nella sua interezza, è affidata ora agli storici. O consegnata ai capricci della memoria: che custodisce i ricordi nel tempo dell’indignazione, e poi li abbandona nel tempo della smemoratezza. “La giustizia vuole più dolore che collera”, scriveva Hannah Arendt nel 1961, all’apertura del processo al nazista Adolf Eichmann a Gerusalemme. Dice il magistrato Gherardo Colombo: “Forse noi magistrati non siamo riusciti finora a raggiungere tutta la verità sulle stragi anche perché i cittadini attorno a noi erano, alla fine, indifferenti, anzi forse addirittura timorosi di coltivare la memoria e di conoscerla, la verità: per paura di dover mettere in crisi le loro tranquille convinzioni”. La verità fa paura, quando è troppo orribile.
di Gianni Barbacetto
da Diario e Zaratustra.it
http://www.zaratustra.it/piazzafontana.htm
– E lei sa anche chi mise la bomba?
– Sì. Fu Delfo Zorzi
Dopo 27 anni, la magistratura milanese ha finalmente spiegato contesto e responsabilità per la strage del 12 dicembre 1969. Una verità orribile.