Resterà negli annali della credulità la valigetta con i 750mila dollari trovata accanto al “nascondiglio”, la pistola alla cintura del catturato, la misteriosa nebbia in cui sono sparite, nei racconti, le sue due (?) guardie del corpo.
E tantissimi altri dettagli. Ma uno non sarebbe sfuggito, se non fossero stati tutti embedded: colui che è stato catturato era un prigioniero. Ed era un prigioniero da diverso tempo. Di chi non sappiamo, probabilmente dei curdi, o di qualcuno che, comunque, ha fatto i suoi calcoli e ha condotto una trattativa con gli occupanti statunitensi, fino a che – dopo essersi assicurato che la taglia di 25 milioni di dollari era stata pagata in qualche banca svizzera, e dopo averla ritirata – lo ha consegnato al signor Bremer. Che Saddam fosse prigioniero da diverso tempo lo dicono le condizioni in cui è stato trovato.
Lo dice il nascondiglio catacombale che poteva aprirsi solo dall’esterno, lo dice la sporcizia (perché mai non avrebbe dovuto lavarsi, o pettinarsi?), lo dicono i graffi sul volto. Abbiamo visto un prigioniero, che era trattato anche piuttosto male, e – dati gli avanzi di cibo trovati nella casupola – anche nutrito piuttosto male. Per uno che aveva a disposizione 750 mila dollari in contanti e in banconote di piccolo taglio non è spiegabile. Ma questa circostanza è di decisiva importanza per capire una quantità di altre cose e il non averla descritta potrebbe non essere stato una distrazione. L’obiettivo mediatico numero uno era di far respirare la popolarità declinante di Bush e della sua guerra. Ed è stato raggiunto con immediata facilità.
Agli occhi di due miliardi di persone è stata fatta balenare l’idea che, tolto di mezzo Saddam, la resistenza sarebbe stata decapitata, la guerra sarebbe finita, e tutti i piani di Washington sarebbero andati in porto. Respiro di sollievo. Questa idea non avrebbe potuto funzionare, invece, se Saddam fosse stato descritto per quello che era, cioè per un prigioniero. Se infatti Saddam Hussein era prigioniero, egli non poteva essere la mente della resistenza armata. Non poteva dirigerla, tanto meno finanziarla. Del resto questa circostanza non ha potuto essere taciuta. Il suo stato psico-fisico era evidentemente troppo depresso per assegnargli un ruolo in quel senso. E non si può guidare una lotta armata senza nemmeno un telefono cellulare. Lasciando dunque da parte l’imbecillità dei giornalisti e dei direttori di giornali che si sono fatti menare per il naso, e la disonestà di coloro che, avendo mangiato la foglia, hanno fatto finta di non vedere, occorre tornare all’analisi dei fatti.
La prima conclusione da trarre, dunque, è che la cattura di Saddam Hussein non farà fermare la guerriglia e il terrorismo sul territorio iracheno. Il centro o i centri di comando erano da tempo, se non da subito, sotto altra guida. Il decentramento dei depositi di armi e di munizioni, i loro nascondigli, tutte cose probabilmente decise da Saddam Hussein prima dell’attacco americano, continuano a funzionare. Il modo umiliante come è stata gestita la cattura nei confronti degl’iracheni potrà avere reso felici i molti nemici di Saddam Hussein in Iraq, ma ha sicuramente fatto infuriare ancor di più i suoi non pochi amici in patria e i milioni di arabi all’estero. Come riconoscono perfino autorevoli osservatori statunitensi, l’ostilità del mondo arabo verso gli occupanti non è sicuramente diminuito. Non c’è dunque ragione per alcun sospiro di sollievo. La tregua è stata e sarà soltanto virtuale. Lo stillicidio di morti americane continua. L’offensiva delle truppe di Bush e una loro maggiore accortezza difensiva, ha soltanto prodotto un intensificarsi degli attacchi contro le forze di polizia irachene.
Ai primi segnali di inevitabile rallentamento delle operazioni di stanamento della guerriglia, gli attentati contro le truppe anglo-americane e contro i consiglieri civili stranieri riprenderanno con feroce vigore. Il problema dell’uscita degli americani entro un termine e con modalità che non siano nocive o catastrofiche per la rielezione di George Bush rimane per il momento irrisolto. Anche il campo di battaglia di Washington non è affatto tranquillo. Grandi manovre sono in corso. Papà Bush è andato in soccorso del figlio mandandogli il suo fedele consigliere James Baker a gestire un po’ meglio i problemi della cosiddetta “ricostruzione”. Ma i falchi del Pnac che circondano il presidente, che gli scrivono i discorsi, che lo guidano dove vogliono, continuano a sabotare energicamente ogni via d’uscita “onorevole” e ogni tentativo di ricostruire una qualche forma di dialogo interatlantico. Tutti coloro che non hanno partecipato alla guerra restano esclusi dal banchetto dei vincitori.
E, mentre Baker arriva, il sottosegretario alla difesa Paul Wolfowitz emette un violento e offensivo discorso che ribadisce la ferma determinazione dell’amministrazione di non permettere a nessuno degli alleati riottosi nemmeno di partecipare alle aste americane per le “concessioni”. Dice Wolfowitz che «limitare la competizione per i contratti incoraggerà l’espansione della cooperazione internazionale in Iraq e negli sforzi futuri». In altri termini: chi non manda truppe non avrà favori. Ma è quell’accenno agli «sforzi futuri» che ho appena sottolineato a sollevare inquietanti interrogativi.
Non solo la fazione di Wolfowitz non desidera alcuna “riconciliazione” con gli alleati europei Francia, Germania e Russia, ma annuncia che si procederà oltre. Dunque sono tutti avvertiti: l’esperimento iracheno deve servire di lezione. In futuro si procederà nello stesso modo e, quindi, tutti devono rifare i loro calcoli mentre si prepara la prossima guerra. In altri termini, mentre un pezzo dell’amministrazione di George Bush padre sta cercando di tessere qualche filo che riduca l’isolamento americano, un pezzo decisivo dell’amministrazione di George Bush figlio si preoccupa di tagliare quegli stessi fili. Quanto al significato degli «sforzi futuri» di cui parla Wolfowitz non c’è da esercitare molta fantasia.
Durante l’estate, e nel pieno della controffensiva della guerriglia irachena e del terrorismo contro le truppe anglo-americane – rivela Paul Krugman sul New York Times – alcuni alti funzionari del Pentagono agli ordini di Douglas Feith, sottosegretario alla difesa per la pianificazione, hanno intavolato trattative segrete con «iraniani dalla dubbia reputazione».
Dunque non solo le traversie irachene non stanno modificando la linea dei falchi di Washington, ma tutto lascia pensare che sia in corso la preparazione di «sforzi futuri», cioè di un rilancio. Il che conferma che costoro non sono affatto preoccupati della destabilizzazione crescente in tutto il Medio Oriente e nelle aree circostanti, e intendono dunque accentuarla, aggravarla, moltiplicarla. Non è a un nuovo ordine che essi si accingono, ma a un prolungato e crescente disordine.
Condizione essenziale per moltiplicare la paura e per intensificare il riarmo in tutte le direzioni.
Poiché si preparano per guerre ben più impegnative delle tre prove sperimentali fino a qui realizzate
Giulietto Chiesa
da Avvenimenti
di Giulietto Chiesa – Stupisce, o dovrebbe stupire, la dabbenaggine di gran parte degl’inviati al fronte, e dei commentatori rimasti in patria, di fronte alle immagini della cosiddetta “cattura” di Saddam Hussein. Tutti, o quasi tutti, così stabilmente embedded da restituirci fedelmente e del tutto acriticamente la versione loro offerta, già confezionata dai servizi segreti statunitensi. Aprire il pacco sarebbe stato molto più interessante che tenerlo chiuso, anche per i lettori, ma evidentemente l’idea di folclore che domina al Pentagono è ormai considerata l’unica praticabile anche in Italia dove, del resto, ormai si festeggia Halloween invece del carnevale e tra non molto diventerà festa nazionale anche quella del Ringraziamento.