Fa una certa impressione osservare la nuova carta politica francese, un grande esagono rosso, con l’Alsazia unica “pecora blu”.
In effetti quello di domenica è stato il più importante successo elettorale per la sinistra dal 1981, quando Mitterand divenne presidente della Repubblica. Tredici punti di scarto tra i due schieramenti sono un’enormità: anche senza la presenza del Front National la destra non sarebbe mai riuscita a colmare un tale svantaggio. Un fatto eccezionale, ma per certi versi prevedibile.
Non in queste proporzioni.
Ritengo che i risultati delle elezioni presidenziali del 21 aprile 2002, sull’onda dell’emozione suscitata dal passaggio di Le Pen al secondo turno, siano stati interpretati male. L’attenzione si è concentrata sullla sconfitta di Jospin, ma in realtà quello scrutinio fu catastrofico anche per la destra liberal-gollista, a cominciare da Chirac, che ha ottenuto lo score più basso di un presidente in carica nella storia della Quinta Repubblica. Se si sommano i consensi raccolti dai tre candidati di centrodestra, non si va oltre il 25 per cento, un altro minimo storico. In tal senso la sconfitta del governo viene da lontano. La destra vive una condizione paradossale, è maggioritaria nelle istituzioni, ma è fortemente minoritaria nel corpo elettorale. Con questo non voglio negare l’importanza dell’effetto “21 aprile”, una data che per la sinistra francese ha rappresentato un autentico choc. C’è stato senza dubbio un effetto “21 aprile” a scoppio ritardato che ha consolidato il riflesso verso il cosiddetto voto utile e ha spinto molti elettori a non disperdere le preferenze. E un sensibile aumento del voto giovanile, anch’esso sulla scia delle mobilitazioni contro l’estrema destra. L’astensione, per quanto inferiore ai precedenti scrutinii, resta comunque assai elevata.
Le politiche impopolari del governo Raffarin sembra che poi abbiano fatto il resto.
Negli ultimi due anni è cresciuta una forte ondata di protesta contro le scelte liberiste dell’esecutivo, dagli insegnanti, ai postini, passando per i ferrotranvieri e gli “intermittenti” dello spettacolo, fino all’ultima clamorosa contestazione dei ricercatori universitari, movimenti ferocemente ostili allo smantellamento del welfare e al taglio di fondi per la ricerca e la cultura in generale. La scesa in campo dei ceti intellettuali, dai professori agli artisti, mai così mobilitati contro un governo, è un altro fattore significativo delle ultime stagioni di lotta e dimostra come i livelli di scoramento nei confronti di Raffarin e dei suoi ministri avessero varcato i limiti della tollerabilità sociale. Nella percezione della maggior parte dei cittadini, i dirigenti liberal-gollisti vengono per lo più percepiti come dei rozzi epigoni del “thatcherismo” più ottuso, una caratteristica politica che in Francia fa perdere le elezioni senza possibilità di appello. Non è un caso che Chirac si tenga molto ai margini del dibattito interno e si concentri più sulla politica estera.
Un campo dove apparentemente riscuote più successo.
Anche perché in patria vive una situazione surreale, quasi di coabitazione con il premier Raffarin, un uomo del suo stesso partito, un fedelissimo che, come accadde con Juppé, rischia di trascinarlo nei guai.
In molti hanno esultato per il lieve indietreggiamento del Front National, non le pare un esagerato esercizio di ottimismo?
Lo score dell’estrema destra rimane altissimo ed è un grave errore sottovalutarlo o interpretarlo in maniera superficiale. Proviamo a sommare i risultati dell’Fn con quelli dell’Mnr di Bruno Megret (una scissione dell’Fn) e ci accorgiamo che i risultati sono gli stessi di 5 anni fa. Il “Fronte” ha perso dove era forte, ma si è consolidato in altre regioni. E’ passato ai ballottaggi in 17 regioni su 22 e non ha perso voti tra i due turni, a dimostrazione della fedeltà dei suoi elettori. Infine è aumentato nel Nord-Pas de Calais, storico bastione operaio e comunista, è aumentato negli insediamenti rurali della “Francia profonda”, come il Limousin e la Champagne-Ardenne.
Il che configura un corpo elettorale sociologicamente molto connotato.
Nelle zone operaie, negli antichi distretti industriali del nord, il partito di Le Pen è riuscito a trasformare la dicotomia lavoratore-padrone in francese-straniero, un’opera di “etnicizzazione” della politica che ha portato avanti con estrema coerenza, riuscendo a incunearsi con abiltà nello sgretolamento delle culture classiste. Oltre al dato sociologico aggiungerei quello ideologico, la “cultura” frontista fa parte della società francese con una crescente omogeneità, facendo passare un discorso esplicitamente xenofobo e autoritario. Non si tratta semplicemente di un voto protestatario o “antipolitico”, al contrario in quel messaggio regressivo intravedo una visione a suo modo “forte” e diffusa della politica. Quel che mi impressiona maggiormente nella mappa dei consensi del Fn è infatti l’omogeneità del voto, oggi molto più distribuito sul territorio rispetto al decennio scorso. Un dato che deve far riflettere e che in pochi hanno analizzato a fondo.
Daniele Zaccaria
L’onda rosa travolge raffarin
Al secondo turno delle elezioni regionali la sinistra plurale supera il 50 per cento dei consensi e ottiene la guida di 20 regioni su 22. Il partito socialista diventa il primo della Francia. Un’ulteriore prova che qualunque governo va a picco se entra in guerra dietro agli Stati Uniti e se insiste nella demolizione dello stato sociale. Se è la destra che va in guerra e fa una politica puramente monetaria, antinflazionista, tutta di tagli alla spesa sociale, un agglomerato di sinistra al primo appuntamento la farà cadere. Ma lo stesso agglomerato farà cadere il governo di sinistra se crede di poter percorrere quella stessa strada, è successo prima a Gonzales in Spagna, poi il governo Jospin in Francia e il centrosinistra in Italia. E Schroeder e Blair sono in difficoltà.
Sulle elezioni francesi riportiamo un’intervista di Daniele Zaccaria a Jean-Yves Dormagen, sociologo e docente all’università di Parigi I – La Sorbona.