di SLAVOJ ZIZEK
Vladimir Ilic Lenin è morto il 21 gennaio 1924, ottanta anni fa, e ci
chiediamo se l’imbarazzato silenzio che circonda il suo nome non significhi
che è morto due volte, che è morta anche la sua eredità. Effettivamente la
sua insensibilità nei confronti delle libertà personali è estranea alla
nostra sensibilità liberale e tollerante. Chi oggi non si sente rabbrividire
al ricordo delle parole con cui Lenin liquidò la critica che i menscevichi e
i socialisti rivoluzionari facevano del potere bolscevico nel 1922? «In
verità, le prediche che fanno i menscevichi e i socialisti rivoluzionari
rivelano la loro vera natura: “la rivoluzione si è spinta troppo
oltre(…)”. Ma allora noi replichiamo: permetteteci di mettervi di fronte a
un plotone di esecuzione per aver detto queste parole. O vi astenete
dall’esprimere le vostre opinioni oppure, se insistete ad esprimerle
pubblicamente nelle circostanze attuali, in un momento in cui la nostra
posizione è di gran lunga più difficile di quando le guardie bianche ci
attaccavano apertamente, non potete biasimare altri che voi stessi se noi vi
trattiamo alla stessa stregua degli elementi peggiori e più perniciosi delle
guardie bianche». Questo atteggiamento sprezzante nei confronti del concetto
liberale della libertà spiega la cattiva reputazione di cui Lenin gode fra i
liberali. La loro tesi si basa soprattutto sul rifiuto della classica
contrapposizione marxista-leninista tra libertà «formale» e libertà «reale»:
come non si stancano di ribadire anche i liberali di sinistra del calibro di
Claude Lefort, la libertà è intrinsecamente «formale», per cui la «libertà
reale» equivale all’assenza di libertà. Lenin è ricordato soprattutto per la
sua famosa risposta: «Libertà – sì, ma per chi? Per fare cosa?». Per lui,
nel caso appena citato dei menscevichi, la loro «libertà» di criticare il
governo bolscevico equivaleva in effetti alla «libertà» di minare alle basi
il governo dei lavoratori e dei contadini, a favore della controrivoluzione
…
Oggi come oggi, dopo la terrificante esperienza del socialismo reale, non è
forse più che evidente in che cosa consiste l’errore di questo ragionamento?
In primo luogo, esso riduce una costellazione storica a una situazione
chiusa, in cui le conseguenze «oggettive» degli atti di una persona sono
completamente determinate («indipendentemente dalle vostre intenzioni,
quello che voi adesso state facendo serve oggettivamente a ….»). In
secondo luogo, il suo «oggettivismo» apparente ne copre l’opposto
soggettivismo: sono io a decidere il significato oggettivo delle tue azioni,
dato che sono io a definire il contesto di una situazione: ad esempio, se io
considero il mio potere l’espressione immediata del potere della classe
operaia, chiunque si oppone a me è «oggettivamente» un nemico della classe
operaia.
Ma è proprio questa la conclusione del discorso? In che modo funziona di
fatto la libertà nelle democrazie liberali? Per quanto la presidenza di Bill
Clinton rappresenti alla perfezione la terza via della (ex) sinistra odierna
subalterna al ricatto ideologico della destra, il suo programma di riforme
dell’assistenza sanitaria costituirebbe comunque, nelle condizioni di oggi,
un atto fondato sul rifiuto dell’ideologia imperante del taglio della spesa
pubblica: in un certo senso, Clinton avrebbe «fatto l’impossibile». Non c’è
da stupirsi, quindi, che tale programma sia fallito: il suo fallimento –
forse l’unico evento significativo, ancorché negativo, della presidenza di
Bill Clinton – conferma una volta di più la forza materiale del concetto
ideologico di «libera scelta». Sebbene la grande maggioranza della
cosiddetta «gente comune» non fosse adeguatamente informata in merito al
programma di riforma, la lobby medica (due volte più forte dell’infame lobby
degli armamenti!) riuscì a inculcare nell’opinione pubblica l’idea
fondamentale che, con l’assistenza medica universale, si sarebbe in qualche
modo minacciata la libera scelta in questioni attinenti alla medicina.
A questo punto tocchiamo il centro nervoso dell’ideologia liberale: la
libertà di scelta, questione di cruciale importanza nelle nostre «società
del rischio» – come le definisce Ulrich Beck – in cui l’ideologia dominante
tenta di «venderci» quella stessa insicurezza che è provocata dallo
smantellamento dello stato sociale, spacciandola per l’opportunità di nuove
libertà. Dovete cambiare lavoro ogni anno, facendo affidamento su contratti
a breve termine invece che su un lavoro stabile a lungo termine? Perché non
vedere in questo la liberazione dai vincoli di un lavoro fisso, la chance di
reinventare continuamente la propria vita, di prendere consapevolezza di sé
e di realizzare i potenziali latenti della propria personalità? Non potete
più fare affidamento sui sistemi pensionistici e mutualistici tradizionali,
per cui dovete scegliere una copertura integrativa e pagare di tasca vostra?
Perché non percepire in questo un’ulteriore possibilità di scelta: una vita
migliore adesso, o una maggiore sicurezza a lungo termine? E se vivete con
angoscia un frangente del genere, l’ideologo post-moderno o della «seconda
modernità» vi accuserà immediatamente di essere incapace di assumere la
libertà completa, di «rifuggire dalla libertà», in un’immatura adesione alle
vecchie forme di stabilità. Meglio ancora, se questo si iscrive nell’
ideologia del soggetto inteso come individualità psicologica, gravida di
capacità e tendenze naturali, ciascuno interpreterà automaticamente tutti
questi mutamenti come risultati della propria personalità, e non come
conseguenza del fatto di essere sballottato come un fuscello dalle forze del
mercato.
Fenomeni come questi rendono più che mai necessario oggi riaffermare la
contrapposizione fra libertà «formale» e libertà «reale», in un senso nuovo
e più preciso. Consideriamo la situazione dei paesi dell’Est europeo intorno
al 1990, quando il socialismo reale stava crollando. All’improvviso, la
gente si è trovata catapultata in una situazione di «libertà di scelta
politica»senza che le venisse posta la domanda fondamentale: quale tipo di
nuovo ordine desiderava realmente? Prima le si disse che stava entrando
nella terra promessa della libertà politica; subito dopo, la si informò del
fatto che questa libertà comportava privatizzazioni selvagge, lo
smantellamento della sicurezza sociale, ecc. ecc.. La gente ha ancora
libertà di scelta, se vuole, può tirarsi indietro; ma no, i nostri eroici
concittadini dell’Est europeo non volevano deludere i loro maestri
occidentali, e quindi hanno perseverato stoicamente nella scelta che non
avevano mai compiuto, convincendosi che era loro dovere comportarsi da
soggetti maturi, consapevoli che la libertà ha il suo prezzo …
A questo punto si dovrebbe rischiare di reintrodurre la contrapposizione
leninista tra libertà «formale» e libertà «reale»: il nocciolo di verità
nella caustica replica di Lenin ai suoi critici menscevichi è che la scelta
veramente libera è una scelta in cui io non mi limito a scegliere tra due o
più alternative all’interno di un insieme prestabilito di coordinate, ma
scelgo invece di modificare quell’insieme stesso di coordinate. L’intoppo
nella «transizione» dal socialismo reale al capitalismo è stato che la gente
non ha mai avuto la possibilità di scegliere l’ad quem di tale transizione:
all’improvviso si è vista catapultata (alla lettera) in una situazione
nuova, in cui si trovava di fronte ad un nuovo insieme di scelte
prestabilite (puro liberalismo, nazionalismo conservatore ….).
È questo il senso delle ossessive tirate di Lenin contro la libertà
«formale», in questo consiste il loro «nocciolo razionale» che vale la pena
di salvare ancora oggi. Quando Lenin sottolinea che la democrazia «pura» non
esiste, che noi dovremmo sempre chiederci a chi giova la libertà specifica
presa in considerazione, qual è il suo ruolo nella lotta di classe, Lenin
mira per l’appunto a salvaguardare la possibilità di una vera scelta
radicale. In questo consiste, in ultima analisi, la distinzione tra libertà
«formale» e libertà «reale»: la libertà «formale» è la libertà di scelta
all’interno delle coordinate dei rapporti di potere esistenti, mentre la
libertà «reale» designa un intervento che mina alle basi queste stesse
coordinate. In sintesi, Lenin non intende limitare la libertà di scelta,
bensì conservare la scelta fondamentale. Quando si domanda quale sia il
ruolo di una libertà all’interno della lotta di classe, quello che ci chiede
è per l’appunto questo: questa libertà contribuisce alla scelta
rivoluzionaria fondamentale, oppure la limita?
Lo spettacolo televisivo più popolare degli ultimi anni in Francia, con
indici di ascolto altissimi, che hanno addirittura doppiato il successo dei
reality shows tipo Il Grande Fratello, è stato C’est mon choix su France 3.
Si tratta di un talk show che ospita ogni volta una persona che ha
effettuato una scelta particolare, determinante per tutta la sua vita: uno
che ha deciso di non indossare mai biancheria intima, un altro che cerca
continuamente di trovare un partner sessuale più adeguato per il padre e la
madre, e così via. I comportamenti stravaganti sono ammessi, addirittura
incoraggiati, ma con l’esclusione esplicita delle scelte che possono
disturbare il pubblico : ad esempio, una persona che scelga di essere e
agire da razzista è esclusa a priori. Non si può immaginare un esempio più
calzante di quello che la «libertà di scelta» rappresenta realmente nelle
nostre società liberali. Possiamo continuare ad effettuare le nostre piccole
scelte, a «reinventare noi stessi» compiutamente, a patto che queste scelte
non incidano veramente sull’equilibrio sociale e ideologico generale. Per
fare una cosa davvero di sinistra, C’est mon choix avrebbe dovuto
concentrarsi per l’appunto sulle scelte «spiazzanti»: invitare come ospiti
persone che fossero razzisti impegnati, cioè persone la cui scelta incide
veramente, fa la differenza. È anche questo il motivo per cui, oggi come
oggi, la «democrazia» è sempre più un falso problema, un concetto talmente
screditato dal suo uso prevalente che, forse, si dovrebbe correre il rischio
di abbandonarlo al nemico. Dove, come, da chi sono effettuate le decisioni
chiave riguardanti i problemi sociali globali? Avvengono nello spazio
pubblico, con la partecipazione impegnata della maggioranza? In caso di
risposta affermativa, è di secondaria importanza vivere in uno stato a
partito unico, o altro. In caso di risposta negativa, è di secondaria
importanza che si viva in un sistema di democrazia parlamentare e di libertà
delle scelte individuali.
Quanto alla disintegrazione del socialismo di stato venti anni fa, è
doveroso non dimenticare che, approssimativamente nello stesso periodo, è
stato inferto un colpo durissimo anche all’ideologia dello stato sociale
delle socialdemocrazie occidentali, che ha cessato anch’essa di operare come
immaginario coesivo delle passioni collettive. L’idea che «l’epoca dello
stato sociale è tramontata» è ormai largamente acquisita e condivisa.
L’elemento comune a queste due ideologie sconfitte è il concetto che
l’umanità, in quanto soggetto collettivo, ha la capacità di limitare in
qualche modo lo sviluppo storico-sociale anonimo ed impersonale, di guidarlo
nella direzione desiderata. Attualmente, tale concetto viene sbrigativamente
accantonato come «ideologico» e/o «totalitario»: di nuovo, si percepisce il
processo sociale come dominato da un Fato anonimo, che trascende il
controllo sociale. L’ascesa del capitalismo globale si presenta a noi nelle
vesti del Fato, contro cui non è possibile combattere: o ci adattiamo,
oppure la storia ci lascia indietro, ci travolge. L’unica cosa che si può
fare è rendere il capitalismo globale quanto più umano possibile, combattere
per un «capitalismo globale dal volto umano» (questo è, o piuttosto era, in
ultima analisi, la terza via)
La nostra scelta politica fondamentale – essere socialdemocratico o
cristiano-democratico in Germania, democratico e repubblicano negli Stati
uniti, ecc. – non può non ricordarci l’imbarazzo della scelta quando
chiediamo un dolcificante artificiale in un bar: l’alternativa onnipresente
fra bustine rosa e bustine blu, fra sweet’n’low e dietor, e la ridicola
pervicacia con cui ognuno sceglie fra le due evitando quella rosa perché
contiene sostanze cancerogene o viceversa, servono semplicemente a
evidenziare l’insignificanza totale dell’alternativa. E lo stesso discorso
si ripete per la Coca e la Pepsi. Ancora, è un fatto ben noto che il
pulsante «chiudi porte» degli ascensori è quasi sempre un placebo
assolutamente inefficace, piazzato lì soltanto per dare ai singoli individui
l’impressione di partecipare, di contribuire in qualche modo alla velocità
del viaggio in ascensore; ma quando premiamo quel pulsante, la porta si
chiude esattamente alla stessa velocità di quando ci limitiamo a premere il
pulsante del piano. Questo caso estremo di falsa partecipazione è una
metafora efficace della partecipazione degli individui nel processo politico
della nostra società «postmoderna» …
È questo il motivo per cui, attualmente, tendiamo a evitare Lenin: non
perché egli fosse un «nemico della libertà», ma piuttosto perché ci ricorda
i limiti ineluttabili (imprescindibili) delle nostre libertà; non perché non
ci offra una scelta, ma piuttosto perché ci ricorda il fatto che la nostra
«società delle scelte» preclude qualsiasi vera scelta.
Come funziona realmente la libertà nelle nostre democrazie? Siamo liberi di scegliere tutto, ma solo all’interno di un sistema di coordinate che non possiamo scegliere. Nell’ossessione di Lenin contro la libertà formale c’è allora un nocciolo di verità da riscoprire e da salvare. Un silenzio imbarazzante circonda il nome di Lenin a 80 anni dalla morte. La sua eredità è morta con lui? La risposta del filosofo sloveno Slavoj Zizek, a cavallo fra l’esperienza delle democrazie occidentali e la transizione post-socialista dei paesi dell’Est.