Ora, a nove anni e nove mesi, noi continuiamo a vedere la guerra iniziata il primo gennaio del `94, e che ancora manteniamo, come una guerra che fu realizzata per disperazione, però che allora considerammo necessaria. Nove anni e nove mesi dopo, continuiamo a pensare che fu necessaria. Pensiamo che se non fossero iniziate la guerra e l’insurrezione armata dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, molte cose in beneficio dei popoli indigeni e del popolo del Messico, o addiritura del mondo, non si sarebbero date nella stessa forma.
Il fuoco e la parola, l’autonomia
Più che dividere in grandi tappe questo periodo, distinguiamo tre grandi linee lungo questi quasi dieci anni. Quella che chiameremmo la linea del fuoco, che si riferisce alle azioni militari, ai preparativi, i combattimenti, i movimenti propriamente militari. La linea della parola, che si riferisce a incontri, dialoghi, comunicati, dove c’è la parola o il silenzio, vale a dire l’assenza di parola. La terza linea sarebbe la colonna vertebrale e si riferisce al processo organizzativo o alla forma in cui si sta sviluppando l’organizzazione dei popoli zapatisti.
Per tutti questi anni, dal 1994 al 2003, però più marcatamente nel 1996 e 1997, l’Ezln comincia a costruire una relazione con il mondo, con persone e movimenti a livello internazionale, una relazione che ha i suoi alti e bassi ma che sarà importante per questo processo di costruzione di un riferimento civile e pacifico alternativo, una specie di prova di un’altro mondo possibile, che è quello che si sta cercando di costruire nelle comunità indigene.
Sorprese di questi dieci, successi, incontri
Così, in ordine cronologico, la prima sorpresa è che il mondo che trovammo non aveva niente a che vedere con quello che immaginavamo sulle montagne. Un’altra delle sorprese che abbiamo avuto è la gioventù. Noi pensavamo che sarebbe rimasta totalmente scettica, restía, cinica, poco ricettiva a qualunque movimento, più egoista, più chiusa in se stessa. Invece no, è una gioventù generosa, aperta, con voglia di apprendere e voglia di darsi a una causa giusta. Un’altra sorpresa è la grande partecipazione delle donne, del settore femminile, come si dice qui, in ognuna delle iniziative e a tutti i livelli.
Una sorpresa politica è stato l’impatto che ha avuto la parola degli zapatisti a livello internazionale. Un’altra delle sorprese, bisogna riconoscerlo, è il degrado della classe politica messicana, di cui si può dire che non ha rimedio.
E la ultima grande sorpresa è la ricettività che ci fu all’inizio in tutti i mezzi di comunicazione (sebbene la maggioranza si chiuse con il passare degli anni) per far sapere quello che realmente stava succedendo nelle comunità indigene, non solo del Chiapas ma di tutto il Messico. Penso che il successo più grande che abbiamo avuto è la disposizione e la capacità di imparare, prima di imparare a combattere, di imparare a riconoscere il nemico, di imparare a riconoscere chi non è nemico, di imparare a parlare, di imparare ad ascoltare e imparare a camminare insieme agli altri, di imparare a rispettare e a riconoscere la differenza. E, soprattutto, di imparare a vederci come siamo e come ci vedono gli altri. Questo, penso, è il successo più grande degli zapatisti: abbiamo imparato a imparare, anche se sembra un lemma pedagogico.
L’autocritica, quello che non si rifarebbe
Se il tempo potesse tornare indietro, quello che non rifaremmo è permettere e…promuovere la sovraesposizione della figura di Marcos.
Parola come arma e silenzio come strategia
Non ci siamo resi conto del valore della parola, in realtà, fino ai dialoghi della Cattedrale o poco dopo. Lì abbiamo cominciato a lanciare molte parole, soprattutto attraverso i mezzi di comunicazione, e abbiamo visto che davano buoni risultati. Il silenzio l’abbiamo scoperto dopo, quando abbiamo capito che il governo era più interessato a che parlassimo, non importa se per insultare, bastava che dicessimo qualcosa perché pensava così di sapere quello che stavamo facendo. E quando stiamo in silenzio non sa quello che stiamo facendo. Un esercito che ha usato la parola in modo così fondamentale come arma, quando tace, li preoccupa.
Il Messico del 1994 e quello del 2003
C’è una differenza fondamentale fra il Messico di oggi, 2003, e quello del 1994. Ci fu l’inizio di una guerra e cominciarono a succedere cose a partire dal gennaio del 1994, cose che non erano successe per molto tempo nella storia del Messico moderno: l’omicidio del candidato presidenziale e del segretario del partito al potere, i regolamenti di conti interni camuffati da battaglie giudiziarie e da accuse, la sconfitta del Pri dopo tanti anni.
Il cambiamento fondamentale lo abbiamo visto nella gente. Quanto al sistema politico, l’alternanza è un cambio ma non significa in nessun modo democrazia, e le ultime elezioni lo hanno dimostrato perché il cittadino è stato assente. Il modello economico che aveva il Pri nel 1994 non solo continua ma si è approfondito. Continua il saccheggio ai fondamenti della sovranità nazionale. Nel sociale, si accelera il processo di decomposizione, precisamente con politiche economiche che distruggono il tessuto sociale. Continua il cinismo della classe politica che non ha alcuna alternativa reale per la maggioranza della gente. In sostanza, così nel politico quanto nell’economico e nel sociale, il Messico è in una crisi più profonda di quella in cui era nel 1994.
Il mondo fra il 1994 e il 2003
Era già avvenuto il crollo del campo socialista e la lotta armata in America latina non era molto popolare, per non dire in altre parti del mondo. Questo ce lo aspettavamo. Però i progressi che aveva fatto il neoliberalismo e la globalizzazione in tutto il mondo risultò una sorpresa, perché allora ci accorgemmo che non solo era avanzato il processo di distruzione e ricostruzione che abbiamo menzionato in alcuni testi ma che era avanzata anche la nascita e il mantenimento di forme di resistenza e di lotta in tutto il mondo. Le internazionali socialiste o comuniste, o quelle reti internazionali mutue per opporsi al capitalismo erano sparite, però erano sorti fuochi di resistenza da varie parti e si stavano moltiplicando.
A questo si deve che l’insurrezione abbia incontrato ricettività in una parte importante della comunità internazionale, fra gente organizzata o con voglia di organizzarsi. E mi riferisco a qualcosa di più del sentimento di pena o di commozione, certamente legittima, di emozione di fronte a quello che significava la sollevazione dell’Ezln e, attraverso questo, poter conoscere le condizioni indignanti in cui vivevano i popoli indigeni prima di quel 1° gennaio 1994. Il mondo che incontrammo nel 1994, per quanto lo immaginassimo, non riuscivamo a capirlo, e per questo non capimmo la ricettività che ci fu in molti gruppi, soprattutto in gruppi di giovani di tutte le tendenze politiche e concezioni, praticamente nei cinque continenti.
Il mondo di oggi, di dieci anni dopo, è più polarizzato. E’ quello che prevedevamo, che la globalizzazione non stava producendo il villaggio globale ma un arcipelago mondiale che si sta acutizzando, e non solo riguardo agli interessi economici, politici e sociali di questa grande società, del potere in generale, come diciamo noi, di questa ripartizione, conquista e distruzione del mondo, ma anche per quanto si riferisce alla resistenza, alla ribellione che sta crescendo in maniera autonoma, indipendente, non come linea di conseguenza, non come una resistenza che si possa portare in tutte le parti del mondo, ma che sta assumendo la sua forma in ogni posto.
Antiglobal: non siamo stati i primi
Il movimento antiglobalizzazione o, come si dice adesso, alterglobalizzazione – perché non si tratta di opporsi a che il mondo sia mondo, ma di creare un altro mondo – non pensiamo che sia un movimento lineare, con antecedenti e conseguenti, né che abbia a che vedere con situazioni geografiche e di calendario, di dire che prima fu il Chiapas, poi Seattle, poi Genova e ora Cancún. Non è che uno preceda l’altro e lo erediti. Noi concepiamo il nostro movimento come un sintomo di qualcosa che stava succedendo o che stava per succedere.
Usammo allora l’immagine dell’iceberg, siamo, dicemmo, la punta dell’iceberg che esce fuori e fra poco emergeranno punte da altre parti, di qualcosa che sta sotto. In questo senso, il Chiapas non precede Seattle in quanto lo annuncia o in quanto Seattle sia la continuazione. Seattle è un’altra manifestazione di quella ribellione mondiale che sta nascendo fuori dei partiti politici, fuori dei canali tradizionali dell’attività politica. E così ogni manifestazione, e non mi riferisco a quelle che hanno seguito l’Omc, ma ad altri tipi di manifestazione o mobilitazione o movimento più duraturo contro questa globalizzazione della morte e della distruzione. Siamo più modesti in quanto al nostro posto. Siamo un sintomo e pensiamo che è nostro dovere mantenerci il più possibile come pretesto o riferimento, ma non come un modello da seguire. Per questo non abbiamo mai rivendicato, né mai lo faremo, che l’inizio fu il Chiapas. La ribellione che c’è in Chiapas si chiama zapatista, ma a Seattle si chiama in un altro modo, nell’Unione europea in un modo e in Asia in un altro modo, in Oceania in un altro ancora. Perfino in Messico, da altre parti la ribellione si chiama in altri modi. Noi vediamo molto bene questo movimento alterglobalizzatore, nel senso che non ripete la verticalità delle decisioni, e questo lo aiuta a non avere un comando centrale, organi di direzione o simili. E che il movimento abbia saputo rispettare le differenti forme che si manifestano al suo interno, i pensieri, le correnti, i modi, gli interessi e le forme in cui si prendono le decisioni. Per quel poco che so di Cancún finora, si vede che questa dinamica si mantiene e che continua ad essere un movimento plurale, non molto di massa, però si capisce perchè si muovono da ogni parte del mondo. Non è lo stesso mobilitarsi qui, in Chiapas, per qualcuno molto vicino, e mobilitarsi per qualcuno che sta in Corea del Sud.
Però rimane questa pluralità di interessi, questa diversità e ricchezza, e anche queste forme di lotta e di manifestarsi. In questo senso, vediamo che il movimento antiglobalizzazione o alterglobalizzazione continua ad essere ricco di esperienze, ha ancora molto da dare e pensiamo che darà molto, a condizione che non cada nella tentazione delle strutture o delle passerelle. Cioè, il rischio che c’è sempre è che un movimento si trasformi in una passerella di personalità, senza che quelle personalità abbiano il sostegno di mobilitazioni nei loro posti.
Noi pensiamo che questo movimento si sta manifestando non più solo nella critica al modello che rappresenta in questo caso l’Omc, ma che, sotto molti aspetti, si stanno costruendo alternative non sulla carta, ma in forme di organizzazione sociale in vari luoghi, dove si può già dire che ci sono i germi di un altro mondo possibile. Si dice che vari movimenti, sia in Messico che in altre parti del mondo, hanno visto nello zapatismo un esempio di lotta e, addirittura, che alcuni hanno ripreso i suoi principi per la costruzione delle loro resistenze. Noi gli diciamo: a quelli che seguono l’esempio, che non lo seguano. Pensiamo che ognuno deve costruire la propria esperienza e non ripetere modelli. In questo senso, quello che offre loro lo zapatismo è uno specchio, però uno specchio non sei tu, in ogni caso ti aiuta solo per vedere come stai, per pettinarti in un certo modo, per aggiustarti. Allora, diciamo loro che vedano nei nostri errori e nei nostri successi, se ce ne sono, le cose che gli possano servire per costruire i propri processi, ma non si tratta di esportare lo zapatismo o di importarlo. Pensiamo che la gente ha abbastanza coraggio e sapienza per costruire il proprio processo e il proprio movimento, perché ha la propria storia.
MARCOS
del subcomandante Marcos
Quella del primo gennaio `94 fu una guerra iniziata per disperazione. Ma necessaria. Le tre grandi linee dell’Ezln: la linea del fuoco, la linea della parola e la linea dell’organizzazione. L’importanza strategia della parola ma anche del silenzio. Il Messico di oggi, rispetto a dieci anni fa, è in una crisi ancor più profonda. Ma anche il mondo è molto cambiato. In peggio. E il movimento è cresciuto. Non per merito degli zapatisti. Noi non vogliamo essere un esempio, semmai siamo un sintomo. Tuttavia…