Perché ha fatto tanto scandalo la proposta del dottor Omar Abdulcadir ? Mi rendo conto che per noi non è facile capire la resistenza a bucare il muro opaco dell’abitudine, dell ‘attaccamento cieco alle proprie tradizioni, a spezzare la forza dell’interdetto che colpisce le donne che si sono sottratte o cercano di sottrarre le figlie all’infibulazione. Proprio per questo pensavo e continuo a pensare che fosse da apprezzare l’indicazione di una via di uscita che permettesse a dei genitori di salvare le loro bambine senza rischiare di essere messi al bando della propria comunità. Dove per comunità in Africa si intende la famiglia, i parenti, i vicini di casa, che sono proprio quelli che esercitano le pressioni più forti sulle donne perché mutilino i corpi delle loro figlie.
Il fatto che sia stata respinta tra incomprensioni e malafede è una sconfitta per tutti. Non solo per Omar Abdulcadir e Emilio Santoro che non possono sottrarre dei piccoli corpi all’infibulazione ma anche per i tanti e le tante che, cer te di interpretare il sentire delle donne somale, hanno sacrificato quei corpi a un principio.
Non ha giovato alla comprensione né alla discussione l’uso di termini impropri come quello di «infibulazione soft» che non dà certo il senso di una rottura rispetto alla mutilazione, come la dà invece il termine corretto di «sunna», un rito di purificazione, che non provoca danni fisici. Vale la pena ricordare come questa pratica tradizionale si sia diffusa da qualche anno nella Somalia del nord (Somaliland) per sostituire l’infibulazione, ormai proibita dal nuovo clero islamico che la considera un rituale tribale di cui non c’è traccia nel Corano. Questo ci fa capire tra l’altro il favore incontrato nella comunità somala toscana dalla proposta del dottor Abdulcadir perché, come mi ha confidato una donna somala, «su queste cose è sempre in Africa che si decide».
Né ha giovato di averla spesso confusa con la medicalizzazione, che va proprio nella direzione opposta alla sunna. Diffusa in Africa tra i ceti medi urbani che ormai da anni si rivolgono agli ospedali per infibulare o fare l’escissione, la medicalizzazione elimina ogni aspetto rituale, naturalizzando il corpo della donna e rendendo endemiche alla soglia del terzo millennio le mutilazioni dei genitali femminili (Mgf). Uno dei tanti lati oscuri della modernizzazione nel continente africano, dove prevale la tendenza a risolvere sul piano della razionalità tecnica – vedi guerra – quelle che spesso sono, come in questo caso, espressioni di profonde lacerazioni sociali.
Anche questo aspetto perverso è rimbalzato dall’Africa fino a noi in veste di madri e padri che si sono presentati in ospedale c hiedendo di infibulare o fare l’escissione alla propria figlia. Una richiesta impossibile da soddisfare ma che ci fa capire come milioni di persone considerino ancora normale mutilare i corpi delle loro bambine. Ebbene di fronte a questo scenario inquietante che conferma come anche in Africa le Mgf siano entrate in un’area di cambiamento, ma come sia tutt’altro che scontata la direzione che esso prenderà, faceva da garante di un futuro diverso la proposta del dottor Omar Abdulcadir che saggiamente aveva preso il meglio di queste due tendenze: fare la sunna in ospedale.
Del resto non si fa in ospedale anche la circoncisione ai bambini ebrei e musulmani, un rito di iniziazione che comporta un intervento più invasivo della mite sunna? Dov’è dunque il problema?
Ce lo ha spi egato tra le altre Giuliana Sgrena, che sostiene come di fatto la sunna riconfermi sul piano simbolico la soggezione delle donne africane a un sistema di dominio maschile fondato sul controllo dei loro corpi. Ne sono convita anch’io, tanto che sono stata la prima a scriverlo in tempi non sospetti, se mi si permette l’autocitazione, in una ricerca sulle Mgf in Italia condotta assieme a tre giovani antropologhe (Cristina Cenci, Silvia Manganelli e Valeria Guelfi) per l’Aidos nel 1999-2000. Ma non penso che spetti a noi intervenire su pratiche simboliche, credenze, habitus che fanno parte della cultura di un altro gruppo sociale. Una cosa è una mutilazione come l’infibulazione o l’escissione, perseguibili nel nostro codice penale come «lesioni gravi e gravissime» a cui è doveroso opporsi , altra cosa è un rito di passaggio come la sunna che contribuisce alla costruzione dell’identità di genere e dell’appartenenza comunitaria.
Intervenire in questo caso non sarebbe molto diverso da quanto è successo in Afganistan con gli americani che volevano liberare le donne dal burka. Non sempre abbiamo la percezione di come noi occidentali possiamo risultare offensivi con i nostri principi, i nostri giudizi, la nostra assertività, varcando quelle invisibili frontiere tra noi e gli altri che come antropologa ho imparato a riconoscere e rispettare. E qui non mi pare il caso di farlo. Anche perché è una situazione molto più ambivalente di come ce la stiamo rappresentando. Dietro non c’è solo un mondo di uomini che su questo disciplinamento dei corpi femminili ha fondato le proprie strategie di potere, ma c’è anche un mondo di donne sospeso tra l’attesa e il timore di tagliare via una parte del corpo delle proprie bambine nel corso di cerimonie di cui le madri sono da sempre le grandi registe.
Ho l’impressione che a dividermi da altre posizioni non sia tanto se fare o non fare la sunna. E’ piuttosto l’idea che ciascuno si è fatto delle Mgf e delle loro dinamiche di cambiamento.
Se ho ben capito all’origine del rifiuto della sunna c’è la convinzione che le Mgf vadano abolite secondo una concezione massimalista del tutto e subito. E che per questo basti informare e convincere. Cosa tutt’altro che facile, come sanno bene le organizzazioni internazionali che da più di venti anni fanno campagne di informazione per sradicare le Mgf. Nonostante i risultati positivi, limitati quasi sempre ad alcune élite di donne scolarizzate, penso che l’informazione da sola non basta per eliminare qualcosa di così tenace e diffuso nel corpo sociale come le Mgf.
Si tratta di un tipo di policy, erede di una ottocentesca pedagogia sociale, che non appare adeguata a far fronte all’inerzia di pratiche radicate in credenze, mentalità, abitudini, che fanno presa sugli strati più miseri della popolazione ovvero sulla grande maggioranza. E che soprattutto non tiene conto del contesto che dà senso alle Mgf. In maniera coerente del resto con una visione parziale e distorta di esse, troppo spesso rubricate sotto la voce «pratiche culturali» che scotomizza un meccanismo di potere che stringe in una morsa tutta la fascia dell’Africa sub-sahariana, dove sono prevalentemente concentrate le Mgf: il «prezzo della sposa»
Dove per prezzo della sposa, come impropriamente l’hanno chiamata gli antropologi, si intende l’insieme dei beni che la famiglia dello sposo offre alla famiglia della sposa in cambio di una donna escissa o infibulata da r ispedire al mittente – e riprendersi il compenso versato in bestiame o in denaro – se non è operata come si deve. Ciò significa che le Mgf rappresentano solo la punta dell’iceberg di un sistema di potere – politico, economico, sociale, culturale – che rischia di vanificare qualsiasi intervento per eliminarle che non affronti il problema nella sua effettualità. O quanto meno non solo sul piano simbolico.
Non basta parlare di un potere maschile senza prenderne in considerazione la struttura che lo legittima cominciando a misurarsi con la parte sommersa dell’iceberg. Rovesciando l’approccio potremmo anche avere delle sorprese, come scoprire che alcuni dei cambiamenti intervenuti di recente in Africa sulle Mgf sono stati l’effetto di un impatto indiretto su di esse di eventi epocali come guerra fondamentalismo, emigrazione, tribalizzazione, che stanno in parte modificando tradizio nali equilibri di potere. La sunna è proprio l’imprevisto venuto fuori da una situazione precipitata e ribaltatasi nel giro di pochissimi anni, che ne ha fatto, almeno per adesso, il mezzo migliore per liberarsi dall’infibulazione. La sua novità sta tutta nei numeri, in una penetrazione capillare, che coinvolge amplissimi strati di popolazione, resa possibile dalle istituzioni religiose locali che controllano, assieme al territorio, i cuori dei suoi abitanti, ma risparmiano i corpi delle loro bambine.
CARLA PASQUINELLI
La proposta del dottor Abdulcadir non può essere definita infibulazione «soft». Piuttosto è una pratica diffusa da qualche anno in Somaliland che non provoca danni fisici. Un rito di purificazione che ha il vantaggio di essere fatto in ospedale. Respingerlo senza volerlo discutere è stato come sacrificare dei corpi a un principio. La convinzione che le mutilazioni genitali femminili vadano abolite tutte e subito rischia di non fare i conti con la realtà