Nel corso degli anni novanta, la vicenda dei populismi investe le crisi politiche di sistema (è il caso italiano, ma anche quello austriaco) e richiama lo stallo di sistemi fondati sul principio dell’alternanza (è il caso francese). A buona ragione Pierre André Taguieff (L’illusione populista. Dall’arcaico al mediatico, trad. di A. Bramati, Paravia Bruno Mondadori, pp. 240, euro 20,50) insiste su questa questione. Il fenomeno – che in Europa acquista una sua rilevanza – non è solo europeo e coinvolge in forme rinnovate realtà nazionali già più volte interessate dal fenomeno del populismo politico (è il caso del Venezuela di Chavez). Nel nostro presente, dunque, il populismo non rappresenta un incidente di percorso o un caso fortuito ma fa parte del panorama politico contemporaneo e si presenta in varie forme. Soprattutto si giustifica in base allo stesso linguaggio che usa, che spesso conia o comunque rinnova.
Il populismo è contemporaneamente il portato di una crisi istituzionale e, insieme, l’indicatore di un codice culturale complessivo proprio di una società politica. In questo senso constatarlo e dunque assumerlo come una diagnosi del malessere politico, sociale e culturale delle società contemporanee non aiuta molto a comprenderne le dinamiche.
Il fatto che il termine populismo sia spesso proposto più come diagnosi che come procedura di analisi, che sia nominato anziché indagato, produce – infatti – un effetto di cortocircuito che ne incrementa la forza attrattiva e l’effetto di potenza perché insiste sulle stesse categorie su cui lavorano quelle agenzie politiche e quegli attori indicati come populisti.
A titolo diverso democrazia, nazionalismo, demagogia sono le tre categorie in termini di contenuto, di immaginario politico e di modalità comunicativa su cui lavorano i populismi degli anni novanta. E sono, contemporaneamente, le procedure che catalizzano e attraggono le domande di protesta dal basso e che permettono i successi elettorali che consentono a questi nuovi attori politici l’accesso al governo.
La lista è lunga e variegata. E’ il caso italiano con la Lega Nord e con Forza Italia; è il caso austriaco con il movimento diretto da Haider; è il caso svizzero di queste ultime settimane.
Laddove non si presenti l’opportunità dell’accesso al governo nazionale, l’effetto è comunque l’occupazione di uno spazio consistente nell’arena politica. E’, per esempio, il caso francese con il Front National di Le Pen, forse il fenomeno politico più studiato negli ultimi venti anni insieme a quello rappresentato dalla Lega Nord, ma anche quello olandese rappresentato da Fortuyn, o il movimento rappresentato da Ross Perot negli Stati Uniti, per tacere dei movimenti politici che ciclicamente si ripresentano nel panorama latino-americano.
Al centro sta ciò che Taguieff denomina come «populismo-retorica» (definito dai tratti invarianti della demagogia: appello adulatore al popolo; la denuncia, da parte di un oratore dotato di un potere di fascino e di seduzione, di supposte «forze malefiche», un aspetto su cui occorre prestare attenzione e mettere sotto osservazione, perché indicatore saliente della forma della convinzione nell’epoca del tramonto delle ideologie).
Ma secondo Taguieff rimane egualmente indefinito e confuso ciò che si indica come populismo. Non si può considerare populista ogni discorso ideologico-politico in cui siano predominanti gli appelli al popolo. Questo aspetto andrà colto, invece, nello spazio che costruisce il populismo non già come movimento ma come sentimento.
Come si costruisce e si definisce un sentimento populista? Questa domanda apparentemente banale, nasconde molti interrogativi di non facile soluzione.
Proviamo ad elencarne alcuni. La condizione che permette una propensione al populismo ha un’origine congiunturale o strutturale? In altre parole nasce da un dato specifico di situazione e di contesto – e dunque anche neutralizzabile se non totalmente almeno in parte – o invece si afferma in relazione a un paradigma culturale profondamente radicato? Successivamente: l’istanza populista è il risultato di una politica concreta o il portato di un paradigma di struttura? Il populismo come sentimento e dunque come grumo di valori e grappolo di parole d’ordine, di visioni sociali e di modelli interpretativi appartiene alla storia del sentimento collettivo o del rapporto con la politica?
In ogni caso l’istanza populista non è il risultato di una congiuntura data. Per riprendere le considerazioni conclusive di Marco Tarchi nel suo libro dedicato alle figure del populismo nella storia dell’Italia repubblicana (L’Italia populista. Dal qualunquismo ai girotondi, il Mulino, pp. 208, euro 12,00) nei cinquantacinque anni di storia dell’Italia repubblicana il populismo ha lasciato una traccia visibile e profonda i cui temi ispiratori pescano nell’eredità fascista. Tra questi Tarchi individua: «la diffidenza verso i partiti e la politica di professione, l’aspirazione a una ricomposizione organica della società al di là delle `artificiali’ contrapposizioni ideologiche o di classe, la fiducia nelle virtù personali dei leader più che nella bontà o nell’applicabilità dei loro programmi».
Tuttavia, ancora a giudizio di Tarchi, se nella storia dell’Italia repubblicana il sentimento populista si mantiene ma trova spazi occasionali per acquisire una fisionomia stabile, ciò è dovuto ai vincoli costituiti dallo scontro bipolare e da una tenuta complessiva di un sistema clientelare – e dagli anni settanta consociativo – che fa sì che sul piano interno ancora certi fenomeni non si manifestino.
Gli anni `90 sarebbero allora il momento in cui il sentimento populista s’incontra con la rottura di alcuni vincoli: il terreno su cui agisce è quello in cui si celebra la liberazione dai vincoli e dalle strettoie della politica. Un terreno che si costruisce sul «mito della società civile». Un mito cui differentemente concorrono e mutuamente contribuiscono forze politiche di tutte le provenienze: di destra, di sinistra, di centro e anche trasversali che Tarchi ripercorre sistematicamente nel suo libro fin dagli anni della Costituente.
Un terreno di coltura favorevole al populismo che si fonda sull’insoddisfazione nei confronti della politica e che ha la sua matrice nell’esperienza dell’«Uomo Qualunque» di Guglielmo Giannini e poi nella figura di Achille Lauro negli anni `50. Una matrice «di destra» ma che – dagli anni `60 – non si limita a quest’area.
Con la stagione dei movimenti, infatti, la costruzione del mito della società civile come luogo depositario delle virtù sane e intoccate di una società a fronte delle artificialità e delle storture della politica connota anche parte essenziale del linguaggio «virtuoso» dei movimenti ecclesiali specie quelli a maggior vocazione movimentista (Comunione e Liberazione sarà fra questi, in parte anche le Acli di Livio Labor) che talora introiettano il mito dell’antipolitica.
Un mito che non casualmente attraversa parte consistente del lessico politico dei movimenti del Sessantotto italiano, che costituisce la retorica del Partito Radicale a partire dai referendum istituzionali degli anni `70 e che sarà il linguaggio della nuova politica di Craxi e di Martelli e ancor più la riscoperta di Proudhon come filosofo della politica della società virtuosa.
In questo contesto entra in scena il fenomeno delle leghe e dei localismi politici. Tarchi dedica pagine acute al fenomeno rappresentato dalla Lega Nord: soprattutto soffermandosi sul linguaggio politico, sui modelli comunicativi e simbolici e sui rituali collettivi, sulla costruzione artificiale di un «popolo del Nord» dato invece come già esistente e dunque come unità organica compatta e coesa da difendere. Una propaganda politica che nel momento in cui adotta un linguaggio apparentemente descrittivista della realtà ha i contorni fortemente prescrittivi. Una retorica politica che dunque costruisce il suo soggetto.
Il «Popolo del Nord», infatti, non c’è se non retoricamente nella fraseologia della Lega, ma inizia a esistere nel momento in cui viene nominato, descritto e assunto come un attore «naturale». Una tecnica, questa, che non è solo di Umberto Bossi, ma è la stessa con cui costruiscono la loro retorica Silvio Berlusconi e Forza Italia nella sua fase nascente.
Una retorica «costruttivista del suo soggetto» che non costituisce solo la prerogativa di un’istanza populistica a propensione di destra, ma che si ritrova anche nell’area della sinistra, nelle esperienze dei girotondi, nel linguaggio delle piazze televisive di Michele Santoro dove spesso quello che nel linguaggio delle destre è il «popolo» diventa «la gente». Anche se poi ci sarebbe da osservare come a differenza delle istanze di destra, all’interno delle sinistre – e segnatamente del fenomeno dei girotondi – il passaggio verso la costruzione di un partito ancora non avviene. Anzi, entro certi aspetti, si auspica proprio che non avvenga.
E, in ogni caso, la discussione resta aperta. In questo senso è significativo ciò che è emerso dall’iniziativa di «ora basta!» soprattutto in merito agli interventi al Palalido di Milano del 14 dicembre (se ne può trovare una sintesi alle pagina http://www.progettoincomune.it/article.pl?sid=03/12/15/140219)
Il populismo, almeno quello che percepiamo a partire dagli studi di Taguieff e di Tarchi, non è un prodotto improvviso ed estemporaneo interno ad una crisi politica (sia essa di rappresentanza, di forme della delega, di rapporto tra cittadino e potere). E’ una descrizione plausibile e in molti passaggi anche convincente (comprese le pagine dedicate a Francesco Cossiga). Certamente Tarchi individua e tratta con equilibrio una parte consistente delle caratteristiche che oggi rientrano nei populismi politici.
Nel suo libro non mancano gli elementi di descrizione del fenomeno e delle diverse agenzie politiche, movimenti e figure che nel tempo hanno segnato la vicenda dei populismi nell’Italia repubblicana. Questi dati vanno connessi non solo ad un modello interpretativo tipologico che Tarchi fornisce nei primi due capitoli del suo libro (ovvero: costruzione del mito del popolo) ma anche alle forme della crisi della politica che accompagnano altri sistemi politici così come propone Taguieff.
Ma non solo. Ancora sulla scorta di Taguieff si devono prendere in considerazione tanto la comparazione che egli stabilisce non solo con altri contesti nazionali oltre il quadro italiano (interessanti nelle sue pagine sono l’analisi del contesto francese così come i molti riferimenti a fenomeni analoghi nei paesi dell’ ex blocco sovietico, nei Paesi Bassi e nelle realtà scandinave a lunga egemonia socialdemocratica), quanto le riflessioni che egli propone in relazione alle metamorfosi del populismo specie riguardo al fenomeno dei movimenti sociali in America Latina nel corso del XX secolo.
Taguieff si sofferma con attenzione sulla distinzione dei populismi attuali rispetto alle esperienze latino-americane – in particolare a quella peronista – insistendo in particolare sul fatto che all’interno di quelle esperienze la forma del benessere interno si costruisce sulla diffusione di nuovi diritti di tutela della persona, di costruzione di uno stato sociale fondato su opportunità generalizzabili e volte a un accorciamento delle distanze sociali.
Il populismo – almeno quello che noi conosciamo a partire dagli anni ’90 – presenta caratteristiche precise e specifiche: presume l’idea di un cortocircuito tra leadership politiche e popolo che si fonda sull’idea e sulla convinzione di un complotto o comunque di una minaccia alla collettività di cui si è parte e di cui ci si propone difensori e sostenitori.
Un paradigma in cui torna a circolare l’ipotesi di dover battere potenze occulte, straniere – comunque nemiche – e nei confronti delle quali la comunità nazionale deve ritrovarsi e fondare un nuovo spirito di corpo. Su questa base si costruisce un linguaggio che si nutre di immagini che vanno a ripescare metafore, modelli, spiegazioni che fanno complessivamente parte di un archivio al tempo stesso vittimistico e sanguinario, comunque ricco di storia e che ha alle spalle una lunga fila di morti.
Niente oggi è così lontano dai sentimenti collettivi come la costruzione dell’Europa. L’euroscetticismo oggi si nutre anche del vocabolario vittimizzato di chi si ritiene tradito abbandonato, «venduto» da una classe politica che si suppone autoriferita, priva di interesse nazionale, prona di fronte a supposti poteri occulti che verrebbero da lontano. Non nazionale perché «mondialista».
A fronte di questa costruzione magica del nemico, ritornano allora in auge vocaboli che hanno una lunga storia nell’immaginario politico collettivo dell’Europa. In nome e in difesa di una tradizione che in sé non c’è oggi, ma non c’era neppure ieri, prende corpo il rifiuto del sistema politico.
Un rifiuto che spesso – osserva Taguieff – «si nutre anche della crescente indifferenziazione ideologica dei grandi partiti di governo, che sembrano intercambiabili sulle questioni fondamentali e sono sospettati di connivenza per la spartizione del potere.» In quello spazio torna e si fa spazio la retorica dei leader dei partiti antisistema che, prosegue Taguieff, «monopolizzano l’espressione delle reazioni antielitarie e antimondialiste, ricorrendo al gesto dell’appello al popolo, che bisogna intendere in due sensi distinti: da una parte un appello alle classi popolari contro il sistema politico e le élite dirigenti che avrebbero confiscato il potere; dall’altra un’esortazione a difendere e preservare l’identità dei popoli o di «quel» popolo contro la minaccia «mondialista» dell’omologazione culturale.
Il complotto non è dunque solo una spiegazione controfattuale del mondo o la filosofia della storia che permette di spiegare la propria sfortuna – sorta di materialismo storico a impianto fatalistico che ha lo scopo di poter motivare la resistenza e scaldare i cuori in stagioni di apatia. E’ anche la spiegazione, o la conseguenza di una spiegazione, che presume la politica come luogo della trasparenza, come «casa di vetro» in cui tutto deve vedersi perché tutto sia spiegabile e dunque controllabile e dove, dunque, se qualcosa non si vede o non è spiegabile è in conseguenza di un potere più forte che rende la realtà «illeggibile», «nebulosa», comunque inutilmente complicata e incomprensibile.
La presunzione che la politica sia semplice va allora interpretata come l’ultima forma della convinzione che l’identità sia una, che la complicazione sia un ostacolo alla tranquillità, che le relazioni tra persone non siano più solo segnate da una gerarchia fissa sopra/sotto. Insomma che la realtà sia complicata e che per comprenderla occorra sforzo, impegno e anche fatica e che spesso non sia un affare che produce immediatamente felicità, successo e guadagno. Dov’è che abbiamo già sentito tutto questo?
DAVID BIDUSSA
manifesto – 02 Gennaio 2004
Dalla Lega Nord al movimento diretto da Haider al Front National di Le Pen. Il populismo fa ormai parte del panorama politico contemporaneo. Democrazia, nazionalismo e demagogia sono le categorie su cui lavora in termini di contenuto, immaginario politico e modalità comunicative. E per questa strada celebra la liberazione dai vincoli e dalle strettoie della politica. Una riflessione a partire da due volumi di Pierre André Taguieff e di Marco Tarchi.