Donne del mondo eco-solidale
Ana ha 23 anni e vive a Fortaleza, nel povero Nordest brasiliano. Prima sopravviveva vendendo dolci e frutta per strada. Oggi ha un lavoro e persino una carta di credito. Solo che il suo lavoro e anche la sua carta di credito sono un po’ speciali. Ana lavora in una cooperativa che produce pane; la cooperativa acquista la farina (biologica) da un insediamento di Sem Terra e il pane viene rivenduto a un’altra cooperativa di acquisti collettivi, nello stesso bairro popolare. La carta di credito di Ana si chiama Credsol (dove “sol” sta per solidarietà) che permette di fare acquisti solo all’interno del circuito dell’economia solidale ed è riservata alla popolazione a basso reddito.
Rosario è argentina e vive alla periferia di Buenos Aires. Lavora in una piccola fabbrica di sapone che è stata abbandonata dai proprietari due anni fa, all’epoca della grande crisi, e attualmente è gestita dagli operai, che sono riusciti a trovare credito presso una banca popolare e rivendono parte della loro produzione a gruppi di consumo solidale. Non solo: parte di quello che le serve per vivere se lo procura tramite un “club del trueque”, club del baratto. Lei porta i suoi ortaggi, le sue marmellate, le sue torte e i suoi maglioni e in cambio prende formaggio, scarpe, miele o qualunque altra cosa le serva.
Myra, 40 anni, vive in un villaggio del Tamil Nadu, in India. E’ un villaggio che ha adottato i metodi dell’Assefa, una organizzazione non governativa che applica i principi gandhiani: economia comunitaria, autosufficienza di villaggio, benessere per tutti. L’attività principale del villaggio è la produzione di capi di cotone, a ciclo chiuso: il cotone viene coltivato, raccolto, trasformato in teli e poi in camicie, vestiti, tovaglie, lenzuola, che vengono acquistati da altri villaggi seguiti da Assefa e dai negozi kadhi, una sorta di circuito di botteghe solidali che vendono prodotti locali. Ma buona parte delle esigenze di Myra e della sua famiglia vengono soddisfatte dalla produzione del piccolo orto, delle cinque galline e delle due capre di loro proprietà. Oltre a occuparsi della casa, dei figli, dell’orto e degli animali, Myra contribuisce in vario modo ai bisogni della comunità: tesse il cotone, fa la maestra nella piccola scuola elementare e fa parte del Consiglio delle donne del villaggio. In cambio, riceve dalla collettività un reddito sufficiente a coprire tutti i suoi bisogni fondamentali.
Silvia, 35 anni, abita a Milano. Lavora in una bottega del commercio equo, fa parte di un Gas (gruppo di acquisto solidale), ha il conto corrente (molto esile…) in Banca Etica e quando, di rado, può permettersi un viaggio sceglie quelli organizzati dalla cooperativa di commercio equo per cui lavora insieme a un’agenzia di turismo responsabile. Fa anche parte di una banca del tempo, i cui membri si scambiano servizi usando come unità di misura il tempo e non il denaro: dato che il suo stipendio è piuttosto ridotto, se ha bisogno di una piccola riparazione in casa o di una baby sitter si rivolge a un altro membro della banca, e lei dal canto suo fornisce un numero equivalente di ore in lezioni di spagnolo, cura di cani e gatti e produzione di focacce e torte salate.
L’homo oeconomicous esiste davvero?
Che cosa hanno in comune Ana, Rosario, Myra e Silvia? Tutte e quattro fanno parte di circuiti di economia solidale. Una realtà, non un’utopia, che si sta sperimentando in molte parti del mondo. E una realtà in crescita, che contraddice in pieno i sacri dogmi dell’economia liberista: in particolare la teoria dell’homo oeconomicus, quel soggetto avido ed egoista tanto amato dagli economisti che pensa solo a massimizzare il proprio interesse individuale. Non si sa per quale strano miracolo, la somma dei comportamenti di questi esseri ridicoli (ma sommamente “razionali”, stando ai valori delle teorie economiche convenzionali) che ricercano esclusivamente il proprio utile dovrebbe avere come risultato un equilibrio ideale che garantisce a tutti i membri della società il massimo del benessere.
La realtà, come ben sappiamo, è molto diversa. Solo per fare qualche esempio: il “consumatore razionale” teorizzato dagli economisti utilitaristi non esiste, come del resto risulta lampante analizzando anche sommariamente i meccanismi della comunicazione pubblicitaria, che per indurci all’acquisto dei prodotti fanno leva quasi sempre su motivazioni emotive, irrazionali e spesso inconsapevoli. Per non parlare dell’irrazionalità totale dei comportamenti della borsa e della ormai incontrollata corsa alla finanziarizzazione dell’economia, altrettanto demenziale e capace di produrre solo disastri. Lo strumento principale utilizzato per misurare la crescita economica, il Pil (Prodotto Interno Lordo), è talmente assurdo e contraddittorio che probabilmente le generazioni future rideranno di noi, quando ne leggeranno sui libri di storia, domandandosi come abbiamo potuto ricorrere per decenni, per valutare il benessere, a un parametro che si basa solo sul denaro speso (o guadagnato) senza distinguere se è servito a comprare armi o a costruire scuole; un parametro che aumenta se crescono gli incidenti stradali o i casi di cancro o se si fa una guerra, che non valuta minimamente l’economia non monetaria (dall’allattamento al seno alle cure fornite dalla famiglia al volontariato) fondamentale per il benessere reale delle persone; un parametro che rimane cieco a un elemento fondamentale come l’uso (e lo spreco) delle risorse naturali e della produzione di scorie e che non sa misurare come viene realmente distribuita la “ricchezza” prodotta.
L’egosimo, la competizione e lo sviluppo
E’ sotto gli occhi di tutti che il modello economico liberista tutto fa fuorché aumentare in modo omogeneo il benessere collettivo; al contrario, allarga a dismisura le disuguaglianze tra i paesi e tra le classi sociali, aumenta la povertà e l’esclusione, distrugge i diritti umani, svuota la democrazia, rende precario il lavoro, ci sta portando verso il disastro ambientale. Lo stesso concetto di sviluppo è entrato in crisi. Perché se sviluppo corrisponde semplicemente a crescita, e in particolare crescita dei consumi, cioè alla diffusione a tutto il mondo degli standard di vita occidentali, è ormai evidente che si tratta di una sporca (e interessata) bugia: il pianeta non può reggere un’espansione illimitata del consumo di risorse ed energia e della produzione di rifiuti. Già noi occidentali da soli, il 20 per cento ricco della popolazione mondiale, consumiamo da soli più risorse di quanto la terra sia in grado di rinnovare. La nostra arroganza “senza limite” si scontra con i confini precisi del mondo dove abitiamo, l’unico che abbiamo a disposizione.
Non solo non è vero che l’individualismo egoista e concorrenziale ci porta al massimo vantaggio possibile per la collettività, come teorizzano i neoliberisti. Non è vero neppure che l’essere umano sia essenzialmente un essere egoista, individualista e competitivo. L’esperienza comune dimostra che in genere, anche tra gli animali, la cooperazione è molto più efficace nel garantire la sopravvivenza del gruppo rispetto alla competizione; che gli esseri umani tendono naturalmente a farsi carico delle esigenze altrui, e anche in situazioni di grande povertà e deprivazione si attivano meccanismi di solidarietà; che la necessità di partecipazione, di collaborazione, di relazione, di dare un senso al proprio agire e alla propria esistenza sono bisogni umani fondamentali, e proprio a questi il sistema neoliberista, che assegna un prezzo a ogni cosa ma non sa dare valore a niente, non dà risposte. Un sistema che, d’altra parte, lascia fuori miliardi di persone, considerate “inutili” sia come produttori che come consumatori. E proprio in queste gigantesche sacche di esclusi germogliano i semi di altre economie, basate su principi opposti a quelli capitalistici.
Solidarietà, partecipazione, “ben vivere” invece di “ben avere”
L’economia solidale, a ben guardare, non è davvero un’idea nuova. In fondo condivide parecchi valori con varie forme di economia tradizionale. Se consideriamo l’organizzazione sociale di numerose popolazioni indigene dell’Africa, dell’America Latina e dell’Asia, per esempio, vediamo che i principi ricorrenti sono sostanzialmente gli stessi. I concetti di proprietà privata, di concorrenza, di crescita, di profitto, di accumulo vengono ignorati; al contrario, la condivisione e la solidarietà sono le basi della convivenza sociale. La produzione è commisurata alle necessità essenziali della comunità, è fortemente ritualizzata e praticata in base a tecnologie e conoscenze tradizionali tramandate di generazione in generazione. L’essere umano si considera parte integrante dell’ambiente, che quindi non va né “conquistato” né sfruttato né sottomesso. Al contrario la natura, spesso divinizzata, viene trattata con il massimo rispetto e con una serie di precauzioni per evitare di alterarne gli equilibri, perché si è ben coscienti che questo comprometterebbe le basi della propria sopravvivenza e di quella delle generazioni future. La coesione sociale è un valore fondamentale da salvaguardare, e questo fa sì che la comunità si faccia carico del diritto alla vita di ciascuno dei suoi membri, compatibilmente con le risorse disponibili. Gli elementi dello scambio e del dono sono importantissimi; ognuno è consapevole che il benessere degli altri è essenziale per il proprio, e la dimensione collettiva e spirituale prevale su quella individuale e materiale. Insomma, pur senza negarne i limiti per quanto riguarda ad esempio i diritti individuali o la condizione delle donne, si direbbe che l’organizzazione economica dei popoli considerati “sottosviluppati” sia molto più umana, equa e saggia dell’”evoluto” capitalismo occidentale. Ma anche nelle nostre società, lo sviluppo del cosiddetto terzo settore e di svariate forme di auto-organizzazione della società civile, che si aggiungono a quelli tradizionali del settore pubblico e del privato “for profit”, è un segnale preciso del bisogno di far rientrare l’etica nell’economia. e di rispondere a domande che il neoliberismo ignora o è incapace di soddisfare.
I principi fondamentali dell’economia solidale sono abbastanza semplici, ma se messi in pratica rappresenterebbero una vera e propria rivoluzione: sobrietà, cooperazione e reciprocità, solidarietà intesa non come beneficenza o carità cristiana ma come diritto-dovere collettivo, responsabilizzazione di ogni individuo rispetto al benessere collettivo, centralità dei diritti e del lavoro, sostenibilità ambientale, distribuzione equa delle risorse, partecipazione democratica alle scelte, tutela dei beni comuni, primato dell’economia locale, conoscenza e cura del proprio territorio. Secondo Euclides Andrè Mance, filosofo brasiliano, consulente del governo Lula per il progetto “Fame zero” e collaboratore della Rete brasiliana di socioeconomia solidale, nonché autore del recente La rivoluzione delle reti (Emi), il concetto cruciale è quello del “bem-vivir”, del ben-vivere, contrapposto a quel ben-avere che, nella mentalità oggi dominante, coincide con il benessere.
Ripensare radicalmente l’economia
Si tratta dunque di ridefinire le priorità partendo da una domanda fondamentale: a che cosa deve servire l’economia? “Se deve servire a distribuire il più equamente possibile risorse sempre più scarse, garantendo a ogni essere umano, oggi e nel futuro, la soddisfazione dei diritti fondamentali, nel rispetto dei limiti del pianeta, è evidente che non possiamo affidarci al mercato, i cui fallimenti sono sotto gli occhi di tutti: il sistema economico va radicalmente trasformato”, è la risposta di Francesco Gesualdi, fondatore del Centro nuovo modello di sviluppo, che sull’argomento ha organizzato, nell’agosto scorso, un seminario di cinque giorni. “Si può immaginare l’emergere di due economie: una pubblica, che ha il compito di garantire le risposte ai bisogni essenziali (e quindi cibo, acqua, casa, vestiti, scuola, assistenza sanitaria, energia, informazione e comunicazione, trasporti), ha la priorità nell’assegnazione delle risorse, funziona sulla base del principio della solidarietà e di una programmazione economica condivisa e partecipata; l’altra, privata e basata sul principio del libero mercato, dovrebbe occuparsi solo dei “desideri”, dei beni e servizi superflui o comunque facoltativi, ma avrebbe un ruolo subalterno e sarebbe rigidamente regolamentata in base a principi di responsabilità sociale e ambientale, attraverso un sistema fiscale e di credito (formato da banche pubbliche e gestite da comitati popolari) che incentivi i comportamenti corretti e punisca quelli scorretti. Proviamo a immaginare una società in cui l’obiettivo del lavoro non è più garantirci un salario, ma semplicemente soddisfare i nostri bisogni; in cui ognuno di noi non ha una sola attività, ma tante, alcune pagate e altre no, e in cui l’acquisto è solo uno dei tanti modi per procurarci quel che ci serve. Ad esempio, io potrei decidere di fare da me le piccole riparazioni in casa o di produrmi la verdura o il pane, di scambiarmi servizi e macchinari con i miei vicini invece di comprarli, persino di pagare una parte delle tasse occupandomi del verde pubblico o facendo assistenza agli anziani. Un sistema del genere avrebbe il vantaggio di garantire servizi pubblici più ampi e meno costosi, di far contribuire tutti al benessere collettivo, ognuno secondo le sue inclinazioni e capacità, eliminando quel senso di inutilità e di emarginazione che colpisce tanti giovani e tanti anziani…”
E in Italia?
Forse non ve ne siete accorti, ma l’economia solidale in Italia non è una novità: nasce negli anni ‘80 con le Mag (le cooperative di mutua autogestione, che sono poi la prima esperienza di finanza etica) e il commercio equo e solidale, cresce negli anni ’90 con lo sviluppo del consumo critico, grazie soprattutto all’attività di denuncia e controinformazione del Centro Nuovo Modello di Sviluppo, dei Bilanci di Giustizia e dei Gruppi di acquisto solidali, la nascita di Banca Etica, la diffusione del turismo responsabile, il radicamento del concetto di sobrietà contrapposto al diktat del consumismo. L’aumento dell’attenzione da parte dei consumatori-cittadini è evidente: la finanza etica e il commercio equo sono in decisa crescita, si moltiplicano le “fiere” (come quella che ha avuto luogo a Volpedo, in provincia di Alessandria, dal 5 all’8 settembre) e i convegni (ultimo quello che si è tenuto a Bagnoli dal 5 al 7 settembre, “L’impresa di un’economia diversa”). L’8 novembre a Empoli nasce l’Associazione Rete del Nuovo Municipio, a formalizzare i frutti dell’elaborazione teorica sul ruolo dei Comuni nel sostenere nuove forme di convivenza civile, partecipazione e pratica economica, ma anche di esperienze concrete di cittadinanza attiva e di democrazia partecipata. E da circa un anno, soprattutto grazie all’impegno della Rete di Lilliput, si è cominciato a ragionare sulle Reti di Economia Solidale.
“Il primo passo è stato un seminario sulle strategie di rete per l’economia solidale a Verona nell’ottobre del 2002”, spiega Andrea Saroldi, uno degli animatori dell’iniziativa, “dove si è approvato l’avvio di un percorso di sperimentazione dei distretti di economia solidale e si è formato un gruppo di lavoro che ha elaborato la Carta per la rete italiana di economia solidale (ne abbiamo parlato nel numero di giugno, ndr)”. L’idea è semplice: mettere in rete le varie esperienze per farle crescere, dare vita a distretti locali di economia solidale per porre in contatto le diverse realtà (botteghe del mondo, Mag e altre iniziative di finanza etica, agenzie di turismo responsabile, gruppi di acquisto, piccoli produttori, cooperative sociali e così via) e far sì che ognuna potenzi le altre, estendere il numero degli utenti interessati ad avere il “pacchetto completo”, investire le risorse all’interno del circuito per allargare sempre di più l’offerta di beni e servizi alternativi su base il più possibile locale. Embrioni di distretti sono in gestazione a Milano, Roma, Torino, in Brianza, nelle Marche, in Toscana. E intanto si programmano altre fiere (la prossima a Roma in dicembre, un’altra a Milano nella prossima primavera), si organizza la Festa dell’economia solidale il 29 novembre prossimo insieme alla Giornata del Non Acquisto, si sta allestendo un sito… Insomma, un’altra economia è possibile. Anzi, è già in costruzione.
di Sandra Cangemi
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SE VOLETE SAPERNE DI PIÙ
La rivoluzione delle reti, di Euclides Andrè Mance (EMI)
Costruire economie solidali, di Andrea Saroldi (EMI)
Le dieci strade dell’economia di solidarietà, di Luis Razeto (EMI)
RBSES (Brasile) www.redesolidaria.com.br, Rio Grande do Sul www.ecosol.org.br
REAS (Spagna) www.economiasolidaria.org
Red de economia solidaria Chile (Cile) www.economiasolidaria.net
MES (Francia) www.inter-reseaux-economie-solidaire.org
Alleanza 21 www.socioeco.org
Per iscriversi alla mailing list italiana: http://liste.retelilliput.org/wws/info/res
Un’economia alternativa è davvero possibile? La risposta è sì. Sandra Cangemi fa un viaggio nel mondo delle reti di economia solidale che si stanno affermando in molti paesi del mondo, inclusa l’Italia. Come funzionano? Come si può farne parte? Scopritelo leggendo questo racconto di un’utopia concreta.