Al grido di «Genova libera», centomila persone d’ogni età e provenienza hanno attraversato il tunnel della paura del luglio 2001. In fondo i partiti, davanti tutti i movimenti. Chiedono «verità e giustizia» per i fatti di sei anni fa. «Genova libera», un grido rimbomba sotto il tunnel che costeggia il porto e sbuca su via Turati. E’ una marea umana quella che grida, come per liberarsi da un incubo lungo più di 6 anni. Ragazzi, tanti ragazzi e ragazze sorridenti. Tra loro c’è chi in quel luglio maledetto aveva solo 10 anni, ma c’è anche chi aveva già i capelli brizzolati e ora grida a fatica, per via di quel maledetto groppo alla gola che impedisce a più d’uno di imboccare la via del tunnel.
Al grido di «Genova libera», centomila persone d’ogni età e provenienza hanno attraversato il tunnel della paura del luglio 2001. In fondo i partiti, davanti tutti i movimenti. Chiedono «verità e giustizia» per i fatti di sei anni fa. «Genova libera», un grido rimbomba sotto il tunnel che costeggia il porto e sbuca su via Turati. E’ una marea umana quella che grida, come per liberarsi da un incubo lungo più di 6 anni. Ragazzi, tanti ragazzi e ragazze sorridenti. Tra loro c’è chi in quel luglio maledetto aveva solo 10 anni, ma c’è anche chi aveva già i capelli brizzolati e ora grida a fatica, per via di quel maledetto groppo alla gola che impedisce a più d’uno di imboccare la via del tunnel.
E la mente ritorna al G8, alla macelleria messicana, quando sotto un altro tunnel si piangeva e si cantava tutti insieme «Bella ciao» per farsi coraggio l’un con l’altro mentre da tutte le parti piovevano lacrimogeni, manganellate, odio telecomandato dalla politica e tradotto in ordine pubblico da poliziotti, carabinieri, finanzieri, secondini, e non tutti in divisa. Riprendersi Genova, riprendersi i tunnel, liberarsi da un incubo denso di paura. Per Marco Revelli con cui attraversiamo la città dietro lo striscione «La storia siamo noi» ci si chiede quale sia il contenuto di questa straordinaria manifestazione: «La mescolanza, guarda i giovani e i meno giovani. E nessuna bandiera di partito in tutta la testa del corteo. La mescolanza è il contenuto principale: ci siamo, siamo sopravvissuti a un governo e mezzo». E si cerca di ricostruire l’unità del 2001.
Passa un ragazzo che batte ritmicamente sul tamburo, ma ha il volto scoperto, non è vestito di nero e sorride. Le finestre dei palazzi davanti alla stazione marittima sono aperte, affacciati neri e migranti che forse hanno trovato una casa accogliente, salutano e ballano al ritmo sparato dal camion della Comunità di San Benedetto al porto, quand’ecco che ad impossessarsi del microfono arriva don Andrea Gallo, il padre di questa manifestazione e di questa gente che con lui chiede giustizia e verità. Per Carlo ammazzato in piazza Alimonda, per sapere chi ha armato la pistola di chi l’ha ucciso, per liberare dall’incubo 25 capri espiatori accusati di colpe che vanno cercate altrove, tra i «pezzi grossi» che oggi siedono su poltrone ancora più importanti come premio per aver garantito la sospensione dello stato di diritto, della democrazia, nel 2001. Per parlare con chi sapeva e ha taciuto, perché come dice don Gallo «anche se non ve ne siete accorti siete lo stesso coinvolti». Dice uno striscione «Contro la devastazione dei diritti e il saccheggio delle vite». Carlo è nel cuore di questi centomila marciatori: «Non spegni il sole se gli spari addosso», Genova non dimentica e c’è un’Italia che non dimentica. Dalla Valsusa sono scesi in tanti con i pullman e con ogni mezzo, dicono con convinzione «Non abbiamo governi amici» e un altro striscione precisa «…né amici al governo». «La Valsusa ricorda e non perdona», chi regge lo striscione vuole aggiungere che «lassù abbiamo fatto un salto qualitativo, ora stiamo discutendo di decrescita». Ha una certa età e ricorda: «Tanti militari così in valle non si erano visti neanche durante i rastrellamenti tedeschi contro i partigiani». Anche don Gallo ricorda i partigiani, quelli della liberazione di Genova nel ’45 e quelli con le magliette a strisce nel ’60, per dire che anche questa volta Genova è stata liberata. Dalla paura. Dalla solitudine. Per essere davvero contenti mancano solo due cose: «Verità e giustizia», spiega il segretario generale della Fiom Gianni Rinaldini per il quale questa richiesta è il contenuto principale «della manifestazione, piena di giovani. Verità perché Genova 2001 non sia l’ennesima pagina oscura della storia del nostro paese». Qualche verità è emersa: per esempio che la politica italiana rifiuta una commissione parlamentare sui fatti di Genova. Persino chi non ne vede l’utilità, nel movimento, ha vissuto quest’atto violento e osceno come un altro schiaffo.
L’unità ritrovata. Tra generazioni, culture e storie diverse. Quelli del luglio di 6 anni fa sono tornati, manca solo Carlo. Al termine del corteo e del concerto in piazza De Ferrari c’è chi torna in piazza Alimonda – piazza Carlo Giuliani, ragazzo – per un saluto. Prima avevano sfilato uomini e donne senza partito e senza sindacato, ma anche dirigenti e militanti del Prc, del Pdci, dei Verdi, di Sd, di Sinistra critica, dei ferrandiani e gli anarchici della Fai. La Fiom, come 6 anni fa e come sempre, i centri sociali in forze, i migranti e i vicentini No dal Molin, il Sindacato dei lavoratori e i Cobas, Cub e Rdb. Dietro l’immancabile bandiera dei 4 Mori c’è chi già prepara l’accoglienza alla Maddalena ai padroni del mondo. «I saccheggiatori non siamo noi, sono quelli che occupano l’Afghanistan e l’Iraq e ammazzano le popolazioni civili», si sente gridare tra un Assalto frontale e l’altro dal camion di testa tappezzato di manifesti: «United colors of resistence». C’è l’Arci e Legambiente e c’è Emergency e Rete Lilliput con tanto di messaggio di Alex Zanotelli. C’è don Vitaliano e c’è persino una piccola rappresentanza del Carc. Decisamente più nutrito lo spezzone dell’Area antagonista («Chi devasta è lo Stato»). Ci sono gli ultras genoani. Nessuno cerca la rissa, tutti chiedono verità e giustizia, con parole diverse ma tutti, qui, si trovano bene con tutti. Chi con l’arma del pacifismo, chi «ma quale pacifismo, ma quale non violenza, ora e sempre resistenza».
C’è Genova, dentro e fuori il corteo. C’è tanta Italia arrivata nonostante il boicottaggio di Trenitalia che inutilmente ha acceso la fiammella per far scoppiare l’incendio che non c’è stato. Nonostante abbia impedito con ogni mezzo la libera circolazione delle persone. Solo le merci possono circolare libere, il liberismo ordina, Trenitalia esegue. Il corteo sfila disordinato, senza gerarchie, i partiti un po’ defilati sono al fondo, dopo l’Altragricoltura e il Commercio equo e solidale e le Donne in nero di Savona e le «Mamme antifasciste del Leoncavallo». La rete del movimento dei movimenti si può tessere ancora, gli errori del passato possono insegnare a ritrovare la strada. Per andare dove? Verso un altro mondo possile, è chiaro. Lo dice lo striscione dell’Angelo Mai occupato di Roma: «Dove non si va andremo». C’è la Cgil? Ci sono la Fiom, Lavoro e società, Rete 28 Aprile. La Cgil in quanto tale non si vede ma tra tanta gente, può esserci sfuggita. Delegati ci sono, e tanti, e operai e precari, chi con e chi senza la tessera Cgil. L’organizzazione di Epifani era invece ufficialmente al convegno del mattino, ma dopo un lungo tira e molla e tanti inviti ha scelto di non prendere la parola. Chissà che non succeda come nel 2001, quando ci vollero un po’ di mesi prima che la Cgil riprendesse la parola, e la collocazione sia pur momentanea nel movimento che ha tenuto accesa la fiammella della democrazia in anni ancora più bui di quelli odierni, dove pure non è che ci si veda tanto.
Questo corteo, dopo quello del 20 ottobre a Roma, è un nuovo messaggio a chi vuol coglierlo: il paese è sconfitto, persino umiliato, privo di rappresentanza ma non si è piegato. Esiste una società in movimento che mette in testa i contenuti e i valori sugli organigrammi e i governi. Ma non è questo, non dovrebbe essere questo, la politica? Dovrebbe, persino per chi è al governo e per chi vuole rappresentare milioni di lavoratori, di pensionati, di precari. C’è ancora un po’ di tempo, ma la pazienza ha un limite. Le strade del sociale e della politica sono diverse, è giusto che sia così. Ma non è scritto che debbano divaricarsi. Roma, Genova, la Val di Susa, Vicenza che è il prossimo appuntamento per tutti. E poi un altro indesiderato G8. Il G8 è indesiderato come la guerra, che è poi la stessa cosa. Ieri si è fatto un piccolo passo avanti, attraversando il tunnel si è vista la strada per uscirne. Heidi e Giuliano Giuliano non sono meno tristi, ma almeno sono meno soli.
di dal Manifesto