Per 15 minuti, il primo maggio 1924, in pieno fascismo, «lo stracciaccio rosso di Mosca» viene issato sul balcone del Parlamento. Il gesto eroico è di Guido Picelli, deputato indipendente comunista, leader degli Arditi del popolo. Presto un film sulla sua vita
di Giancarlo Bocchi *
su Il Manifesto del 05/01/2008
Il primo maggio 1924 non è un giorno di festa. Mussolini, che ha preso il potere da quasi due anni, ha abolito la Festa internazionale dei lavoratori. Malgrado l’imposizione del regime fascista le astensioni dal lavoro sono comunque massicce. Pattuglioni di agenti di polizia e di carabinieri si aggirano per le vie arrestando gli operai che non possono giustificare l’astensione dal lavoro. Solo nella capitale i lavoratori arrestati sono più di mille.
È in questo contesto che Guido Picelli, deputato comunista, già comandante degli Arditi del popolo durante la vittoriosa Battaglia di Parma del ’22 contro migliaia di squadristi di Italo Balbo, progetta e attua un’azione solitaria e clamorosa. Picelli vuole sfidare il regime fascista proprio nel palazzo del Parlamento ormai in mano ai fascisti, anche grazie ai brogli elettorali.
Nelle elezioni che si sono svolte da poco la lista nazionale del fascio littorio ha riportato, secondo i conteggi ufficiali, 4 milioni di voti e eletto 356 deputati. Più i 19 fascisti eletti in una lista civetta. La sinistra ha ottenuto al Nord più voti dei fascisti, ma il risultato elettorale complessivo è disastroso. I socialisti hanno perso i 3/5 dei voti, mentre il Pc ha ottenuto un piccolo successo, eleggendo 19 deputati. Tra questi l’«indipendente» e ex deputato socialista Guido Picelli.
Il sistema delle preferenze indicate dal Partito è rigido. Ma Picelli vince ugualmente. È l’unico a essere eletto al di fuori delle preferenze del Partito, grazie al largo seguito popolare che ha in Emilia.
Picelli è alto, ha gli occhi intensi, luminosi e magnetici. Ha un portamento elegante e fiero che incute rispetto. Quella mattina del primo maggio del 1924, all’ingresso della Camera dei deputati i commessi lo salutano con deferenza, rispetto e forse commentano tra di loro: «L’ on. Picelli è veramente matto a venire qui proprio oggi». È un giorno di tensione. Decine di deputati fascisti bivaccano nell’edificio.
Ma Picelli è uno che non ha paura di niente e di nessuno. Sulla tempia ha una cicatrice. È il segno di un colpo di rivoltella ricevuto nel marzo 1923. Un fascista di Parma aveva mirato dritto alla sua fronte e gli aveva sparato a bruciapelo. Per fortuna o per caso, Picelli si era salvato con un movimento istintivo della testa.
Negli ultimi mesi è scampato a numerose aggressioni che potevano diventare mortali. Con l’ aiuto dei popolani dei borghi dell’Oltretorrente ha organizzato una rete segreta di percorsi e vie d’uscita per fuggire con gli uomini della sua organizzazione clandestina dei «Soldati del popolo» agli agguati e agli attentati squadristi. Per organizzare la resistenza e partecipare alle riunioni politiche riesce ad attraversare gran parte della città di Parma passando per i tetti delle case. Frequentemente salta dalle finestre e passa per gli scantinati e i sotterranei seguendo percorsi sconosciuti a altri. Per i fascisti locali è diventato l’imprendibile. Picelli non è un politico di primo piano come Amedeo Bordiga, Antonio Gramsci o Palmiro Togliatti. Ma al contrario dei dirigenti può vantare di essere l’unico che ha sconfitto sul piano militare i fascisti durante la Battaglia di Parma, nelle 5 giornate dell’agosto 1922.
Per il proletariato italiano Picelli è una leggenda. Una leggenda che «ha un coraggio di ferro», come dicono i popolani della sua città. Anche per questo motivo è molto temuto dai fascisti, fuori e dentro il Parlamento.
Nell’ottobre 1923 venne organizzato un complotto (come poi avverrà mesi dopo per Matteotti) per farlo fuori. Vincenzo Tonti, infiltrato, strumento del regime, preso dal rimorso e affascinato dalla nobiltà d’animo di Picelli denuncia pubblicamente: «Gli orditori del complotto erano divisi da due opinioni: secondo alcuni l’on. Picelli doveva essere bastonato a sangue (…) secondo altri, egli doveva scomparire addirittura». Chi erano gli organizzatori del complotto? Tonti denuncia il generale Agostini, il generale Sacco, il vicequestore Angelucci e Italo Balbo. Il complotto doveva avere inizio proprio davanti alla Camera dei deputati. Un portiere infedele, vedendo uscire Picelli, doveva avvertire i sicari del regime.
Ma quel primo maggio del 1924 Picelli non si cura dei complotti e dei rischi che corre. Ha in testa l’azione che deve portare a termine. È deciso, determinato. Dopo essere riuscito a seminare i pedinatori, a far perdere le sue tracce agli sbirri che lo seguono giorno e notte, attraversa i corridoi di Montecitorio con l’aria decisa di chi ha un lavoro urgente da fare. In mano ha il solito bastone da passeggio, che a volte gli serve come arma di difesa, e tiene sottobraccio qualcosa di morbido avvolto in una carta. Sale lo scalone del palazzo e senza dare nell’occhio arriva al primo piano. Attraversa alcune sale, si dirige verso la grande finestra prospiciente il balcone sulla facciata principale sulla piazza di Montecitorio .
Picelli esce sul balcone, scarta il pacchetto che aveva sottobraccio e srotola un grande drappo rosso ornato di falce e martello. L’asta portabandiera che si protende sulla piazza è nuda. Il tricolore sabaudo viene inalberato solo durante le sedute del Parlamento. Ma in quel momento non c’è alcuna bandiera perché la nuova legislatura non è ancora iniziata. Picelli con l’ aiuto di alcuni pezzi di spago fissa il vessillo rosso sull’ asta .
Dalla piazza i passanti, le forze dell’ordine e i fascisti guardano allibiti il vessillo rosso dei lavoratori e del comunismo che sventola placidamente sul palazzo del parlamento del regno. Picelli, anche approfittando del trambusto e confusione, scende tranquillamente le scale ed esce dal palazzo. Nessuno lo ferma. Nessuno gli chiede niente.
Il suo non è un atto per riaffermare lo slogan bordighista «Rosso contro tricolore», ma piuttosto un gesto simbolico per affermare che la Festa dei lavoratori non si tocca.
La polizia, dopo aver rimosso il corpo del reato dall’ asta del palazzo del Parlamento, svolge intense e urgenti indagini. Benito Mussolini, che non si è ancora trasferito a Palazzo Venezia e alberga da presidente del consiglio nel vicino palazzo Chigi è furioso: «Ancora quel Picelli!». Probabilmente in Mussolini quel giorno riaffiorano i timori espressi prima della marcia su Roma: «Non possiamo arrivare a Roma lasciandoci alle spalle una situazione scoperta e pericolosa come quella di Parma». I primi rapporti di polizia arrivano alle 16.30 dello stesso giorno nelle mani del capo della polizia: «Verso le ore 14, l’ on. Dudan, entrato con l’ing. Foscolo del Comune di Roma, nel salone di lettura della Camera, si era accorto che era stato attaccato all’asta della bandiera, posta al balcone di centro del 1° piano del Palazzo di Montecitorio, un drappo rosso (…). Immediatamente l’on. Dudan si era affrettato a togliere quel drappo, informandone successivamente la Questura della camera. Questa avrebbe raccolto sufficienti elementi per ritenere autore del gesto inconsulto l’ on. Picelli, deputato di Parma, che non è stato più rintracciato nel locali della Camera».
Il rapporto del questore, il giorno dopo si si arricchisce di particolari : «Alle ore 13.45 di ieri l’ on. Dudan e l’ architetto Fasolo (Foscolo nel secondo rapporto di polizia diventa Fasolo) del comune di Roma, saliti al salone dei giornali, alla Camera dei Deputati, notarono che un individuo vestito di nero, sbarbato, si ritirava dal balcone prospiciente su piazza Montecitorio, allontanandosi frettolosamente dal salone stesso. Insospettito, l’ on. Dudan si avvicinò al balcone e si accorse che un drappo rosso era stato legato all’ asta della bandiera». Quindi, secondo i documenti ufficiali , la bandiera rossa dei lavoratori e del comunismo sventolò per almeno 15 minuti sul palazzo del Parlamento italiano.
L’epilogo della clamorosa azione avviene alle 17.30 dello stesso giorno. Picelli viene rintracciato dalla polizia in via Uffici del Vicario e «tratto in arresto». Secondo il rapporto della Questura «L’ on. Picelli confessò (sic) il fatto aggiungendo di aver voluto compiere una affermazione di carattere sentimentale e politico». Il questore inviperito per la beffa arresta Picelli «per delitto di offesa alla bandiera nazionale, ai sensi dell’ articolo 115 Codice Penale».
Come ricordò Umberto Terracini anni dopo, Picelli compì l’ azione «temerariamente e di sua iniziativa» aggiungendo poi che «dopo che essa fu compiuta certamente nessuno dei compagni di partito gliene fece rimprovero».
Dopo poche settimane, l’10 giugno 1924, viene rapito e assassinato a Roma da sicari fascisti il deputato socialista Giacomo Matteotti. Il 30 maggio 1924 Matteotti aveva preso la parola alla Camera elencando tutte le illegalità e gli abusi commessi dai fascisti per vincere le elezioni. Nel discorso venne pronunciata la profetica frase: «uccidete pure me, ma l’idea che è in me non l’ucciderete mai». Il corpo di Matteotti viene ritrovato il 16 agosto in un bosco nel comune di Riano a 25 km da Roma. L’intero paese è scosso da un’ondata di sdegno e d’ indignazione. Il regime fascista vacilla.
Il 17 luglio al Comitato Centrale del Partito, Picelli propone la linea dell’azione: «L’ organizzazione di carattere militare deve essere rafforzata. Da un momento all’ altro noi possiamo essere trascinati sul terreno dell’azione e guai se il Partito non fosse in condizione di compiere interamente il suo dovere…». Come ai tempi della battaglia di Parma del 1922, il suo appello all’«unità e all’ azione» non sarà ascoltato.
* cineasta
di G. Bocchi – Dal Manifesto