Con una modalità ed una tempistica già ampiamente conosciuta il Circo Barnum della comunicazione
deviante del capitale sta dispiegando, a scala globale, la solita dis/informazione a proposito
degli avvenimenti tibetani.
Ancora una volta l’abusato refrain di ipocrita esecrazione segna, inequivocabilmente, l’interessata
opera di opacizzazione mediatica di quanto sta accadendo nel Tibet. Come sempre le grandi centrali
della manipolazione mondializzata stanno compiendo il lavoro sporco necessario alla totale mistificazione
degli avvenimenti in corso ed alla rimozione delle reali cause che sottendono i fatti odierni (e quelli
già verificatesi nel passato).
Da ogni parte, particolarmente tra gli epigoni di una “sinistra” – sempre più subalterna ed integrata
al credo universalistico dell’assoluta vigenza del capitalismo – assistiamo alle lodi sperticate di
colui il quale viene definito il Buddha vivente e presunto campione ed incarnazione di spiritualità,
fratellanza ed armonia generale.
Eppur e, non da oggi, i fautori della modernizzazione (quella del turbo/capitalismo) applaudivano
entusiasti al superamento ed alla cancellazione di quelle che vengono definite “religioni antiche ed
arcaiche” per affermare, con la forza, la superiorità della “civiltà occidentale”. Sono decenni, oramai,
che molti viaggi in giro per il mondo dei Papa, specie nei paesi di area musulmana, godono di sostanziose
sovvenzioni da parte del Fondo Monetario Internazionale a testimonianza di come gli organismi sopranazionali
del capitalismo hanno a cuore “l’evangelizzazione di questi paesi”.
Quando, però, si affronta il tema del Tibet cinese e del Dalai Lama la musica cambia repentinamente registro.
In tale caso spuntano fuori gli apologeti del “diritto e della democrazia internazionale” con allegato l’intero
armamentario propagandistico teso al rinfocolamento artificioso di tutte quelle contraddizioni storiche e sociali,
che pure esistono e che potrebbero persino convivere assieme, per manometterle in una dichiarata funzione anticinese.
Non è la prima volta che gli apprendisti stregoni del capitale si mettono al lavoro in questa regione del mondo allo
scopo di destabilizzarla violentemente.
L’obiettivo è sempre lo stesso: si agitano i temi dell’indipendenza del Tibet allo scopo di provocare e di
mantenere alta la pressione sulla Cina.
Ciò che, sottotraccia, si imputa a Pechino è la resistenza alla penetrazione selvaggia dei capitali internazionali e,
nel contempo, la sua potente ascesa politica, finanziaria e militare tra i vari soggetti della competizione globale.
In definitiva non si perdona ai cinesi il loro porre vincoli e difficoltà al rullo compressore imperialistico della
rapina delle risorse, della schiavizzazione della forza/lavoro e della devastazione ambientale.
Del resto – ed è questa una risaputa pagina del corso storico del capitalismo in Asia – i cinesi, nonostante le
tante ed oggettive contraddizioni, hanno sempre fatto resistenza verso ogni tentativo di assoggettamento
occidentale del proprio immenso paese. Infatti l’ossessiva ostinazione con cui, nelle diverse fasi, gli occidentali
si accaniscono contro questo paese/continente deriva dalla persistenza di questo dato materiale incancellabile.
Eppure, discorrendo del Tibet, andrebbe ricordato agli interessati sostenitori di questa “causa nazionale” quali
erano, prima della vittoria della rivoluzione nazionale ed antiperialistica di Mao e la proclamazione della
Repubblica Popolare Cinese, le condizioni di sopravvivenza in questa regione cinese.
Citiamo, a questo proposito, un piccolo passo di un articolo di Sara Flounders, pubblicato qualche anno fa
sulla rivista statunitense Workers World, in cui si faceva una disamina della situazione: (…) Il Tibet
pre-rivoluzionario era totalmente sottosviluppato… senza sistema viario… una teocrazia feudale basata
sull’agricoltura, con il 90% della popolazione in servitù o schiavitù… non vi erano scuole, eccetto i monasteri
riservati a pochi… l’educazione delle donne era sconosciuta. Non vi era alcuna forma di assistenza sanitaria e
ospedali. (…) Un centinaio di famiglie nobili e gli abati dei monasteri (di famiglie nobili anch’essi) possedevano
tutto. Il Dalai Lama viveva nel palazzo di 1.000 stanze di Potala… per il contadino la vita era breve e misera.
Il Tibet aveva il più alto tasso di tubercolosi e mortalità infantile nel mondo.
Inoltre, sempre a proposito della continua azione di manomissione di costruzione artificiosa di provocazioni
anticinesi, la Flounders, sempre nel suddetto articolo, cita alcuni dati interessanti: (…) Dal 1955 la CIA
iniziò a costruire un esercito controrivoluzionario in Tibet… Un articolo su Newsweek del 16.8.99 descrive
in dettaglio le operazioni della Cia in Tibet dal 1957 al 1965… Il Chicago Tribune del 25.1.97 descriveva
l’addestramento di mercenari tibetani in Colorado… Secondo il Pentagono migliaia di loro, con circa 700 voli,
furono paracadutati in Tibet negli anni ’50…Il fratello del Dalai Lama seguiva tutte queste operazioni e se
ne faceva vanto… La Cia diede una rendita annuale di 180.000 dollari al Dalai Lama per tutti gli anni ’60 (…)
E’ evidente che le scomposta grida di questi giorni – a favore della “causa del popolo tibetano” – sono fortemente
strumentali, come lo sono state quelle nei mesi scorsi a sostegno dei monaci della Birmania, ed alludono ad una
speranza mai sopita e che ancora alberga tra i desiderata dei poteri forti a New York, a Londra, a Berlino, a
Parigi ed a Roma.
Alla Cina di oggi e ai suoi attuali dirigenti non viene perdonato l’autorevole profilo assunto nel gorgo
della competizione internazionale. Le teste d’uovo dell’imperialismo quando non possono colpire direttamente
i loro concorrenti – magari a base di “bombe intelligenti” o di “democratici embarghi” – utilizzano tutte
le leve possibili per detronizzare i paesi e gli stati che non accettano supinamente di abbassare la testa.
Questa è la vera posta in gioco di questo ulteriore passaggio della “crisi tibetane”. Tutte le altre
interpretazioni sono cortine fumogene per non affrontare i reali termini della questione.
Con buona pace degli accorsati opinion maker bipartizan o presuntamene indipendenti (da un Federico
Rampini ai convertiti al credo pannelliano come Sergio D’Elia..) continuiamo a non farci sedurre dalle
esoteriche sottane del Dalai Lama e dalla sua antisociale dottrina.
Senza nulla cauzionare dell’operato dei dirigenti cinesi e senza alcuna apologia nei confronti di una
formazione statuale che riteniamo, comunque, controparte del nuovo proletariato e delle sterminate
masse di sfruttati che popolano la Cina non riteniamo di accodarci acriticamente alla
“santa alleanza” contro Pechino.
Con questa premessa, di metodo e, soprattutto, di sostanza, vogliamo, al di là di qualsivoglia
atteggiamento eurocentrico e spocchioso, discutere e confrontarci per far emergere un punto di vista,
teorico e politico, fondato sull’ autonomia e sull’indipendenza dalla linea di condotta – già decisa
e sapientemente pianificata – dalle grandi pot enze occidentali.
di Michele Franco