Di sicuro non poteva esserci inaugurazione più tragica per il nuovo centro di permanenza temporanea. Stessa area, ma ingresso diverso. Ora il cancello presidiato ventiquattr’ore su ventiquattro non è più in corso Brunelleschi, ma sul lato opposto, in via Mazzarello. Costato 12 milioni di euro per la prima metà dei lavori, in muratura, più civile e più sicuro, nelle intenzioni della Prefettura, era entrato in funzione in gran segreto lunedì mattina. Doveva essere un periodo di rodaggio. Sessanta persone trattenute, che diventeranno 130 a lavori ultimati.
Ma dopo cinque giorni è successo quello che non era mai capitato nei nove anni di gestione precedente. Il prefetto Paolo Padoin è stato avvisato quasi subito: «I primi riscontri hanno stabilito che quel ragazzo è morto per una malattia — spiega — forse una polmonite. So che era stato visitato da un medico della Croce Rossa nel primo pomeriggio di venerdì. Se ci fossero state davvero delle omissioni di soccorso durante la notte, ma è un fatto ancora tutto da accertare, toccherà alla magistratura chiarire eventuali responsabilità». È già stata disposta l’autopsia. Ora al Cpt non ci sono più i vecchi container di lamiera. Le gabbie che delimitano le varie zone sono nuove ma altrettanto alte.
Hassan Nejl è morto in una camerata da sei posti, appena dipinta di giallo, con due bagni e una doccia. Vicino a lui, fino all’ultimo, è rimasto Mohammed Alhuiri, 25 anni, iracheno: «Per tutta la giornata di venerdì stava malissimo. Si lamentava. Non si reggeva in piedi. Aveva la febbre alta, mi ha persino chiesto di toccargli la fronte perché sentissi anch’io». Alle tre è stato visitato dal medico di guardia, nell’infermeria della Croce Rossa. «Ma forse pensavano fosse una cosa leggera o non gli hanno creduto — racconta Alhuiri — perché gli hanno dato una medicina, se ho capito bene un antibiotico, senza nemmeno verificare se potesse essere allergico. Hassan era tossicodipendente, prendeva il metadone, aveva problemi, stava ancora male. Eppure non hanno voluto più saperne di lui. L’hanno lasciato solo. L’hanno trattato come un animale». A mezzanotte e mezza la situazione si è aggravata. «Ho perso la voce a furia di urlare — spiega Alhuiri — a mezzanotte e quarantacinque gridavamo tutti. Dopo un po’ è arrivato un addetto della Croce Rossa. “Fino a domani mattina non c’è il medico”, ha spiegato. Poi se n’è andato. Hassan si è steso sul suo letto, era caldo, stava malissimo… ».
Ieri mattina suo fratello voleva parlargli. Visto che Hassan Nejl non ha il telefono, ha chiamato al numero di cellulare di un altro immigrato marocchino trattenuto nel Cpt. «Sono andato per passargli la chiamata e l’ho visto — racconta — aveva gli occhi sbarrati e la bava alla bocca. Non respirava più». L’hanno portato di nuovo in infermeria. Ma era troppo tardi. Alle 8 di mattina il medico di guardia ha constato il decesso. Ora gli agenti dell’ufficio immigrazioni della questura sorvegliano le case gialle. Tutti gli immigrati hanno annunciato lo sciopero della fame: «Fate qualcosa per noi — urlano — dite la verità. Venite a vedere come siamo trattati. Qui siamo come in un canile, dove se abbai nessuno risponde». Mohammed Alhuiri è sconvolto: «Chiediamo giustizia per il nostro amico. Non ho paura di dirlo e non mi tiro indietro, ho visto bene quello che è successo. Se un giudice vuole sentirmi, io sono pronto».
di repubblica.it