Per quanto si affannino nel mettere al riparo il sistema, ricorrendo ai vari brunovespa, a commentatori compiacenti, a giornalisti economici inconsistenti, il faccione barbuto del buon vecchio Marx scruta la crisi dall’alto, compiaciuto. Guarda la folla di Wall Street, la faccia pallida di Profumo, quella inebetita di Bush o quella di cera di Berlusconi con un sorriso sornione come di chi ripete instancabilmente: «Vedete che avevo ragione?» e magari scalpita per poter tornare ad aggiornare dati e contesto di quell’opera – Il Capitale – che lo consacra come l’interprete fondamentale del capitalismo.
Per quanto si affannino nel mettere al riparo il sistema, ricorrendo ai vari brunovespa, a commentatori compiacenti, a giornalisti economici inconsistenti, il faccione barbuto del buon vecchio Marx scruta la crisi dall’alto, compiaciuto. Guarda la folla di Wall Street, la faccia pallida di Profumo, quella inebetita di Bush o quella di cera di Berlusconi con un sorriso sornione come di chi ripete instancabilmente: «Vedete che avevo ragione?» e magari scalpita per poter tornare ad aggiornare dati e contesto di quell’opera – Il Capitale – che lo consacra come l’interprete fondamentale del capitalismo.
Marx aveva ragione, gli analisti seri lo sanno: certo non poteva prevedere il ruolo inedito di Cina e India, né che un capitalismo malato si sarebbe inventato i titoli “salsiccia” – quelli dove dentro ci sta di tutto ma nessuno sa con precisione cosa contengano. Ma se potesse guardare le convulsioni dei “talebani del libero mercato” e sentire la voce imbarazzata di chi si prodiga a rappresentare gli interessi dei titoli spazzatura – tra loro giornalisti e ministri di ogni paese – oggi Marx direbbe semplicemente che lo sviluppo del capitale commerciale o finanziario è inversamente proporzionale al saggio di profitto garantito da investimenti produttivi.
Insomma, che la crisi è figlia della caduta tendenziale del saggio di profitto.
E’ in effetti ciò che è accaduto nel ciclo di crescita lenta degli ultimi trenta anni, quella fase di stagnazione dell’economia mondiale che, dopo lo shock petrolifero del ’73-’74, non ha più conosciuto – tranne che per la Cina, l’India o il Brasile – i tassi di crescita dell’età dell’oro seguita alla Seconda Guerra Mondiale. Una stagnazione caratterizzata da una tendenziale saturazione dei mercati di sbocco e da una conseguente tendenza ribassista dei saggi di profitto. Da qui lo sbocco nell’economia di carta, in quella finanza che Marx chiamava capitale fittizio e che, guarda caso, periodicamente, secondo un ritmo implacabile, viene letteralmente distrutta dal crollo puntuale delle borse. E’ accaduto nel ’97 con la crisi asiatica, era accaduto nel ’94 con quella messicana, e poi nel 2001 con l’esplosione della new economy, fino ad arrivare ai vertici giganteschi dell’attuale crisi, la più pesante, quella che forse ridisegnerà equilibri e rapporti di forza a livello mondiale.
Ancora Marx, molto compitamente (citiamo Il Capitale, stavolta), avrebbe segnalato che «il vero limite della produzione capitalista è il capitale stesso; è il fatto che in essa sono il capitale e la sua stessa valorizzazione che costituiscono il punto di partenza e quello di arrivo». La produzione per la produzione, «lo sviluppo incondizionato delle forze sociali produttive» è un mezzo che «si scontra costantemente con il fine perseguito che è un fine limitato: la valorizzazione del capitale esistente». Una contraddizione esaltata dalla natura del capitalismo, dalla sua anarchica competizione selvaggia che non assume un punto di insieme, rifugge dalla regolazione salvo poi cercarla puntualmente quando i tassi di profitto sprofondano, il crollo allaga la stiva del sistema e la paura rende il gotha del capitalismo mondiale simile a tanti topolini ciechi che sbattono la testa al muro alla ricerca di “mamma Stato”. Uno spettacolo disgustoso.
Quello che accade in questi giorni, e il peggio che dovrà ancora accadere – non ci si illuda delle rassicurazioni, la crisi è pesante e si riverberà sulle condizioni reali, produzione, salari, consumi, financo sui fondi pensioni ancora oggi raccomandati dai ministri-vampiri del governo Berlusconi – somiglia a uno spettacolare processo al capitalismo senza che purtroppo ci sia un Pubblico Ministero all’altezza del compito (Di Pietro, in questo caso, davvero non è adatto…).
Un atto di accusa contro quell’ondata liberista, avviata nei primi anni 80 e capitanata da Reagan e Thatcher – e che via via ha attratto l’intero spettro della politica, a cominciare dalla socialdemocrazia divenuta liberale – quando la necessità di tenere alto quel saggio di profitto decadente ha imposto di tagliare i salari, ridurre lo stato sociale, aumentare la produttività del lavoro, realizzare il più grande trasferimento di ricchezza tra le classi avutosi dalla nascita del capitalismo a oggi. Così facendo si è ridotta la domanda globale, si è realizzata una sovrapproduzione che ha dirottato capitali nel sistema finanziario.
Basta con la frottola della “finanza cattiva” che si mangia il capitalismo buono e produttivo come vanno ripetendo gli arroganti esponenti di Confindustria (e del governo o dell’opposizione) nei vari salotti televisivi. Nel 2006 i profitti delle principali aziende quotate a Wall Street derivavano per oltre il 33% da attività finanziari e lo stesso è accaduto in Italia. Senza contare l’intreccio perverso e pervasivo tra banche e industrie e tra tutti i principali attori di questo balletto globale che si chiama capitalismo.
Quanto accade è però anche un atto di accusa contro l’illusione della “gestione temperata” del capitalismo, a opera di uno Stato severo e compiacente allo stesso tempo. Gli osservatori attenti e onesti, infatti, sanno bene che la responsabilità di Bush nel provocare il disastro è certa ma sanno anche che la bolla speculativa, con il suo corredo di deregolamentazione, è stata incubata dall’amministrazione Clinton, in piena Terza via.
Il capitalismo si serve dello Stato come un servo sciocco: ne occupa i posti chiave per dirottare le risorse – che dire del presidente della Goldman Sachs, Paulson, che diventra Segretario al Tesoro Usa, fa fallire la Lehman Brothers e invece salva…la Goldman Sachs? – e poi lo spreme per salvarsi dalla catastrofe. In questi giorni tutti i governi stanno salvando le banche e i banchieri (vedi il “comitato di affari della borghesia” di quel Manifesto che fa ascolti record su ITunes) ma nessuno muove un dito per quei poveracci che hanno perduto la casa e sono accampati in una Tendopoli tra la California e il Messico; nessuno interviene là dove si deve intervenire, a sostegno dei salari dei lavoratori anche per dare ossigeno alla domanda globale; nessuno mette sotto processo una torma di speculatori, pescecani e parassiti che hanno contribuito attivamente al disastro attuale.
Al danno, si aggiungerà la beffa di uno Stato nazionale che salvando otto banche in Gran Bretagna, quattro o cinque negli Usa, tutto il sistema in Irlanda e in Germania, favorirà al termine della crisi una superconcentrazione bancaria mai vista (saranno probabilmente solo tre le grandi banche che si spartiranno il potere negli Usa).
Delle tante definizioni che si possono utilizzare e che sono state utilizzate per descrivere il capitalismo, quella che mi è rimasta sempre in mente è quella che utilizza un celebre dipinto di Bruegel: “Pesce grande mangia pesce piccolo”. Oggi sembra che tutti i pesci stiano boccheggiando ma l’esito della crisi sarà quello. Marx ce l’aveva chiaro e lo ha scritto. E’ ora di tornare a leggerlo con attenzione. Senza scimmiottare D’Alema che forse non lo ha mai capito, ma senza fare sconti a quel sistema di cui lui auspicava la fine.
di Salvatore Cannavò