Inatteso, grandissimo, nonostante la pioggia. A Roma oltre 300.000 persone in corteo. I sindacati di base (Cub, Cobas, Sdl) raccolgono un successo importante; ora sono un soggetto con cui la politica – e la sinistra – deve fare i conti. Stracciato il luogo comune del conflitto generazionale. L’autunno caldo dell’università attraversa lo sciopero generale.
In decine di migliaia, ragazzi dei collettivi, ricercatori e dottorandi, i nuovi iscritti e i loro fratelli minori delle superiori, urlano «noi la crisi non la paghiamo». E annunciano: «Abbiamo appena iniziato».
Inatteso, grandissimo, nonostante la pioggia. A Roma oltre 300.000 persone in corteo. I sindacati di base (Cub, Cobas, Sdl) raccolgono un successo importante; ora sono un soggetto con cui la politica – e la sinistra – deve fare i conti. Stracciato il luogo comune del conflitto generazionale. L’autunno caldo dell’università attraversa lo sciopero generale.
In decine di migliaia, ragazzi dei collettivi, ricercatori e dottorandi, i nuovi iscritti e i loro fratelli minori delle superiori, urlano «noi la crisi non la paghiamo». E annunciano: «Abbiamo appena iniziato».
La crisi sta rompendo molti argini, e non solo nelle borse. Lo vedi già uscendo dalla metro, piazza della Repubblica, mezz’ora prima dell’appuntamento per il corteo. La prima impressione è subito potente: lo slargo è già pieno. Per chi sa quanto siano «pigre» le partenze dei cortei romani questo è un segnale.
E’ una folla di ogni età, dai bambini tenuti per mano da mamme o maestre fino ai canuti protagonisti di stagioni lontane. In mezzo i trentenni divorati dalla precarietà, i quarantenni che scrutano l’orizzonte per capire se e quanto reggeranno le aziende in cui lavorano (anche statali, visto l’aria che tira da 15 anni e i pruriti di Brunetta), i cinquantenni che vedono la pensione allontanarsi e immiserirsi. Ma che almeno conservano memoria di altri conflitti, hanno esperienza da trasmettere.
Si parte subito, di modo che dietro possano respirare. I coordinatori delle tre organizzazioni promotrici dello sciopero si godono il primo annuncio di grande successo, portando tutti insieme il piccolo drappo («patto di consultazione permanente») che dà conto del robusto passo avanti unitario che questa giornata rappresenta. Paolo Leonardi (Cub), Fabrizio Tomaselli (Sdl) e Piero Bernocchi (Cobas) sono presto assediati da cronisti e telecamere.
Dietro di loro il grande striscione riassuntivo dei temi dello sciopero: «Basta con la distruzione di lavoro, salari, diritto, scuola, servizi pubblici». E’ un discorso frutto di una dinamica sociale che ancora non ha incorporato – né poteva farlo prima – la dimensione e le conseguenze sociali della crisi. Ma di questo si comincerà a parlare da domani.
Si va, e un cielo carogna comincia a mandar pioggia. Prima a dirotto, poi intermittente, ma senza mai smettere fin quando l’ultimo cordone di corteo non sarà arrivato a San Giovanni. C’è un attimo di incertezza. Molti – tra lavoratori, studenti e maestre d’asilo – sono in piazza per la prima volta. Poi vedi che le maestrine sono veramente previdenti: in un attimo tirano fuori centinaia di mantelline, coprono al volo i bambi e via a sguazzare sotto l’acqua contro «la strega Gelmina». Viene sommersa dagli applausi una signora che porta un cartello davvero puntuale («Ci pisciano addosso, ma il governo dice che piove»). I più «maturi» e atei inveiscono alla loro maniera, massaggiandosi le giunture doloranti. Ma si va. Ai ragazzi dei licei non sembra fare effetto; saltellano cantando «Bella ciao», come ci fosse il sole. Ai vigili del fuoco, ovviamente, il clima non fa né caldo né freddo.
Da dietro entrano quelli del «Blocco precario metropolitano» che avevano occupato i binari della stazione Termini, offrendo la colazione ai passeggeri preoccupati di perdere il treno (molti, peraltro, erano stati cancellati per lo sciopero). Un ragazzo smentisce chi dice che certe parole non hanno più senso, sbandierando il suo cartello «il nero è di classe». E non parla di moda. Sarà perché i sindacati di base sono apertamente di sinistra, sarà perché è un bel colore, anche questo fiume di gente scorre sotto un manto di bandiere rosse. Fregandosene dei consigli pelosi di chi consiglia di farne a meno. Volti noti dei partiti ora extraparlamentari appaiono già al momento della partenza (Rizzo del Pdci; Musacchio, Sentinelli, Boghetta del Prc; Marco Ferrando, Gigi Malabarba e molti altri di Sinistra critica).
Inutile cercare l’ombra del Pd.
Ma la piazza è di chi lavora, oggi. In una macchia gialla si presentano invece i dipendenti di Ikea. Si spiegano con la stessa sintetica rapidità con cui sono costretti a lavorare: «Subiamo ricatti continui, a decine sono assunti tramite agenzie interinali con contratti a due giorni; poi abbiamo stagisti dalla Regione, formazione zero e otto ore di lavoro; una marea di contratti a tempo rinnovati da anni; alle cassiere viene vietato di partecipare alle assemblee sindacali, chi è iscritto a qualche sindacato viene comandato per turni spezzati, in orari assurdi, per massacrarti la vita». Uno ricorda che «il fondatore di Ikea, era uno svedese collaborazionista dei nazisti; l’imprinting deve essere rimasto anche nei successori».
Nella i scuola i Cobas hanno il loro regno, ora molto rivitalizzato. Striscioni e bandiere sono davvero tanti, e si vede anche che in diverse utility (Telecom), servizi, fabbriche, questa presenza si è ormai consolidata. Imponente lo spezzone Cub, con una presenza massiccia del pubblico impiego (dall’Inps all’agenzia delle entrate, passando per praticamente tutti i ministeri e un profluvio di enti locali) e nei trasporti locali. Applausi per le centraliniste precarie di Legnano, diventate famose per una strip conference e invitate ad Anno zero solo la sera prima (ma sono ancora fuori dal lavoro).
Anche l’Sdl ha ormai una presenza diversificata, ma il blocco dei dipendenti Alitalia non può certo passare inosservato, con tutti quegli steward e hostess in divisa, impeccabili, di fianco a ragazzotti coi dreadlocks.
E’ un fatto sociale e politico enorme. Se così tanta gente si prende così tanta acqua con così tanta allegria, vuol dire che sotto c’è sostanza e ragioni vere. Senza l’acqua sarebbero stati certo più degli oltre 300.000 che tutti gli riconoscono (ma la cifra di 500.000 non sembrerebbe un’esagerazione), ma proprio le avversità meteo ingigantiscono la forza di questa prova. Gli stessi organizzatori non si attendevano un successo simile, anche se erano certi di una partecipazione molto più alta del solito. Molta di questa gente non è iscritta a questi sindacati, magari ha in tasca la tessera della Cgil. Un infermiere lo spiega con molta chiarezza: «non ne possiamo più e non vediamo una lira, era semplicemente ora di muoversi». O anche uno slogan che riscuote subito successo: «se qualcosa volete cambiare, dai vostri stipendi dovete cominciare».
Questo corteo ammazza parecchi luoghi comuni, nessuno innocente. Il principale è quello del «conflitto generazionale», dei giovani a basso salario e precari perché i vecchi sarebbero «troppo garantiti». Quei tanti volti di ultraquarantenni certificano che la precarietà è una condizione universale pervasiva; e che la riduzione di diritti e salari per chi sta un po’ meglio (assunzione a tempo indeterminato e un salario garantito da un contratto nazionale, nulla di più) non comporta affatto un miglioramento per chi chi sta peggio. Anzi, i precari sono ulteriormente danneggiati (basta guardare a quel che vuol fare Brunetta nel pubblico impiego).
Il secondo luogo comune spazzato via riguarda l’universo valoriale: cos’è «nuovo» o «vecchio», nel bel mezzo della crisi?
Da oggi c’è un nuovo soggetto sindacale e sociale con cui fare i conti. Lo sanno per primi i sindacati di base, fin qui frammentati e prigionieri di una condizione di minorità che ha sedimentato dei decenni anche un’attitudine minoritaria. C’è un salto di paradigma da fare, ma alcune premesse – il radicamento sociale – cominciano ad esserci.
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L’autunno caldo dell’università parte con la pioggia. Battente.
«Ma chissenefrega», gridano migliaia di ragazzi che fin dalle nove di mattina sono già zuppi a piazza Esedra. Il corteo si muoverà da lì a due ore, ma la musica è già “a palla”, e i megafoni già caldi a scandire ritmicamente lo slogan che li accompagnerà per tutta giornata: «Noi-la-cri-si-non-la-pa-ghia-mo». Trenta-quarantamila, forse di più. Difficile quantificarli in mezzo a centinaia di migliaia di altre persone.
Più facile svelarne l’incazzatura, la rabbia, la paura. Che diventa incubo a pensare a quello che il diabolico duo Gelmini-Brunetta ha in mente per loro. E così c’è qualcuno che prova a trovare alternative, mettendosi “in vendita” in cerca di acquirenti internazionali, sfilando con un cartello al collo con una scritta in inglese: «Sono uno studente italiano, adottatemi». Nessun paradosso. Almeno per i ricercatori del Belpaese, quella di espatriare sembra l’unica soluzione plausibile per la «sopravvivenza della specie», come dice sconsolata Mara precaria al Cnr che, dopo quattro anni di attesa, era ad un passo dalla stabilizzazione ed invece «è arrivato un Brunetta qualunque a tagliare i fondi e anche il mio futuro».
Futuro. Altra parola tabù, altra parola che fa paura. Per chi l’università l’ha appena cominciata come Lidia, diciott’anni e iscritta da neanche un mese ad Economia, ma che già ha voglia di mollare: «Certo, cominciare con queste premesse non è proprio il massimo…». O chi, come Giulio, tra un mese discuterà una tesi in Giurisprudenza e, invece di sprizzare gioia, già c’ha il magone. «Una volta che il Magnifico, o chi per lui, mi darà la mano chiamandomi dottore, che faccio? Volevo provare il dottorato, ma non ho trovato un professore che mi consiglia di intraprendere questa strada. Non ci sono i soldi dicono». E ce ne saranno sempre meno da qui ai prossimi anni.
«Tagli, privatizzazioni, precarietà. Ecco l’università spa»: non c’è sintesi migliore per descrivere la realtà di quella che si legge nello striscione portato da alcuni studenti della Sapienza, i più numerosi (giocano in casa) e i più rumorosi. In piazza ieri, ma soprattutto nelle aule di quasi tutte le facoltà del più grande ateneo d’Europa da una settimana in mobilitazione. Chiedono il blocco «immediato» della didattica, martedì si riunirà il senato accademico per decidere il da farsi. Se blocco non sarà, promettono «battaglia».
Richiesta che riecheggia da tempo tra gli studenti di mezza Italia, anche loro ieri a Roma a «fare resistenza».
Luigi si è fatto quasi sette ore di macchina insieme alla sua bandiera rossa, «la stessa che mio padre sventolava nel ’68». Ha lasciato i compagni del collettivo a «presidiare» la facoltà di Scienze politiche, fresca di occupazione, perché «anche il Sud è presente e lotta». Centinaia anche da Napoli. Alessia due giorni fa era all’aula Piovani di Lettere e filosofia, epicentro delle contestazioni alla Federico II, nell’affollatissima assemblea in cui si è chiesto (invano) al rettore di interrompere la didattica e abrogare il comma 17 che prevede l’entrata dei privati nell’Università. Da Pisa sono partiti otto pullman carichi di studenti e ricercatori precari. Anche lì la situazione è quantomai calda, alla Normale ogni giorno un’assemblea, ogni giorno un’occupazione. Come del resto capita nelle altre città dello Stivale. Firenze, Livorno, Sassari, Ancona, Torino, Bari. E la lista si allunga di giorno in giorno. Un bel gruppo arriva anche da Milano nonostante anche nel capoluogo lombardo fosse organizzata una manifestazione. «Bisogna fare numero e farci vedere dalla Gelmini», dice Fabio della Statale.
E allora arrivare fino a piazza San Giovanni, dove confluirà il corteo organizzato dai Cobas, Rdb-Cub e SdL, non ha molto senso. Meglio deviare per il ministero della pubblica Istruzione, e andare direttamente alla «tana del lupo» come grida qualcuno dalle prime file. «Siamo stati ieri da Tremonti, se no la Gelmini ci rimane male», gli risponde un altro. I ragazzi approvano: «Tutti a viale Trastevere».
Tutti, universitari e liceali. Qualche secondo di confusione, giusto il tempo di trovare un accordo con le forze dell’ordine che accettano di “scortare” i manifestanti verso il ministero. Non c’è tensione, tutto fila liscio. «Anche voi avete dei figli, stiamo lottando anche per loro, per un’istruzione davvero pubblica e aperta a tutti, ai figli dei ricchi e a quelli degli operai», gridano i ragazzi ai poliziotti e carabinieri, e un paio, dietro il casco blindato, annuiscono pure. Pasolini ne sarebbe orgoglioso.
Sono le 15:30 quando finalmente in quasi cinquemila arrivano davanti al ministero. «Fuori! fuori!», gridano alla Gelmini. Rimarranno lì un’ora senza avere risposte. Se lo aspettavano, perciò niente drammi: «Andremo avanti fino a che non sarà ritirata la legge 133. Da domani occupazioni in altre scuole e università». E giurano: «È solo l’inizio».
di Francesco Piccioni/ Stefano Milani – Dal manifesto