Freddo di notte, caldo di giorno, un caldo sfibrante, soprattutto per i 120 sfollati di Colle Sassa, rimasti senza acqua, senza poter bere e lavarsi per 2 giorni, fino a quando non hanno protestato e minacciato querele.
Freddo di notte, caldo di giorno. Nelle cuccette e nelle tende alla mattina non si può più stare: manca l’aria e il termometro sale ad oltre 30°. Il microclima, il sovraffollamento, le scarse condizioni igieniche e i tardivi controlli sugli alimenti e la gestione della cucina nei campi favoriscono la diffusione di malattie infettive e parassitarie.
Freddo di notte, caldo di giorno, un caldo sfibrante, soprattutto per i 120 sfollati di Colle Sassa, rimasti senza acqua, senza poter bere e lavarsi per 2 giorni, fino a quando non hanno protestato e minacciato querele.
Freddo di notte, caldo di giorno. Nelle cuccette e nelle tende alla mattina non si può più stare: manca l’aria e il termometro sale ad oltre 30°. Il microclima, il sovraffollamento, le scarse condizioni igieniche e i tardivi controlli sugli alimenti e la gestione della cucina nei campi favoriscono la diffusione di malattie infettive e parassitarie.
50 casi di gastroenterite nel solo campo di piazza d’armi in un solo giorno e i malati vengono tenuti in isolamento nelle tende. Un caso accertato di tubercolosi nel campo di Pizzoli, ma le prime notizie apparse su televideo parlavano di 5 malati di tubercolosi all’Aquila. Di una cosa sicuramente siamo tutti malati, la disinformazione.
La protezione civile promette condizionatori e doppi teli per proteggersi dal sole, ma intanto si aspettano ancora lavabi in prossimità dei cessi chimici e i medici asseriscono che: “per prendere una diarrea basta aprire la porta del bagno chimico e poi non lavarsi le mani”. Sapete cosa ha risposto la protezione civile ad uno sfollato disoccupato che chiedeva teli frangisole e frigoriferi per il campo? “Vedi di farteli regalare da qualcuno, noi non ne abbiamo!”
Fa caldo, troppo caldo nelle tende, i bambini, gli anziani, i malati costretti all’isolamento non riusciranno a superare l’estate e l’ospedale da campo non è in grado di fronteggiare l’emergenza. Nonostante i climatizzatori, nelle tende dell’ospedale la temperatura supera i 30° e i ricoverati, di cui una trentina di anziani allettati nelle tende di medicina interna, aspettano i rifornimenti di integratori salini contro il caldo. Per andare al bagno, chi può alzarsi dal letto deve uscire dalla tenda per raggiungere i cessi chimici e durante il percorso rischia di inciampare in un’altra minaccia, le vipere. Ma non è tutto: dal 20 maggio, per una settimana, sono sospesi gli esami per i pazienti ambulatoriali e ricoverati per liberare le aree dove verrà montato l’ospedale da campo del G8.
Questo maledetto G8, che già da ora rende ancora più invivibile, con la sua invadenza militare e finanziaria le condizioni degli sfollati aquilani. Un G8 che sottrae e sottrarrà alla rinascita della città risorse urbanistiche ed economiche preziose. L’ennesima beffa e provocazione a danno dei terremotati abruzzesi. Un G8 per il quale verranno sperperati 90 milioni di euro di denaro pubblico per stendere un tappeto rosso sotto i piedi degli 8 potenti della terra (sotto i piedi dei terremotati abruzzesi solo scosse e vipere), un G8 per il quale il governo si sta adoperando in tutta fretta per mettere in sicurezza da eventuali contestazioni gli 8 potenti della terra, nella roccaforte blindata e antisismica della caserma “Vincenzo Giudice” (che potrebbe ospitare già da adesso 25.000 sfollati, o in alternativa la sede dell’università dell’Aquila), un G8 per il quale verranno sottratti agli sfollati altri 900mila euro per l’adeguamento dell’aeroporto di Preturo alle esigenze di mobilità e sicurezza degli 8 potenti della terra (alle proprie esigenze di sicurezza e di mobilità gli sfollati devono pensare da soli, senza intralciare le forze del disordine a difesa del G8 e della più alta concentrazione in Italia di depositi bancari, quale era l’Aquila sicuramente già prima del sisma del 6 aprile), un G8 per il quale già da ora il diritto alla mobilità, alla salute, al lavoro, alla casa, alla sicurezza dei terremotati abruzzesi passa in secondo piano rispetto ai privilegi e all’arroganza dei potenti e dei governi.
Dal 6 aprile non abbiamo più diritto all’autogoverno, non abbiamo più diritti. I malati vengono spediti fuori dall’Abruzzo per essere curati e il personale medico, così come anche quello dell’università, se può abbandona il territorio. Qui non c’è più lavoro per gli aquilani, qui non c’è più neanche l’assistenza sanitaria minima, garantita prima del terremoto.
Gli operai comunali sono a braccia conserte e la breccia delle cave abruzzesi per i campi e per il G8 viene prelevata da ditte provenienti da Milano o Torino perché, dicono, le cave non sono sicure, come se le ditte di Milano o Torino conoscessero il territorio abruzzese meglio di chi ci vive da sempre.
La disoccupazione nel territorio aquilano, già molto elevata prima del terremoto, ora ha raggiunto livelli insopportabili per un tessuto sociale così profondamente diviso e sparpagliato tra un presente di tendopoli e alberghi-ghetto e un futuro di new town. L’Aquila nacque dall’unione di 99 villaggi, che strinsero un patto per fuggire alle vessazioni dei baroni feudali e garantire a tutti stessi diritti civici e uso delle proprietà collettive, come boschi e pascoli. Ora questi campi, le future new town, riporteranno indietro l’orologio di questa città di almeno 8 secoli.
Fa caldo, troppo caldo nelle tendopoli e si muore di noia. Chi prima aveva un lavoro, seppur precario, ora non lo ha più e migliaia di famiglie non hanno più neanche un reddito su cui contare.
Né il governo centrale, né le amministrazioni locali si sono concretamente impegnati a far ripartire l’economia del territorio, privilegiando evidentemente speculazioni di interesse politico ed economico a discapito del tessuto umano.
I prodotti locali dell’agricoltura e dell’allevamento, inutilmente offerti alla protezione civile per il consumo nei campi, rimangono invenduti e devono essere distrutti. Sono le grosse catene di distribuzione e non i piccoli produttori indigeni a guadagnare dall’emergenza. Nelle tendopoli gli sfollati non hanno certo diritto di scelta e, mentre nelle stalle abruzzesi i vitelli invecchiano e il latte deve essere gettato, nei campi la minestra è sempre quella del cibo in scatola o surgelato, di dubbia provenienza e inesistente genuinità, probabile concausa della recente epidemia di dissenteria.
I lavoratori aquilani sono costretti ad emigrare per trovare un lavoro, anche perché di fatto, gli enti locali sono stati commissariati. La popolazione, con il decreto 39 e relative ordinanze viene espropriata di ogni potere decisionale in merito al proprio destino, sia per quanto riguarda la fase dell’emergenza (impossibilità di autogestione nei campi della protezione civile e blocco degli aiuti da parte della stessa nei confronti dei campi autogestiti) sia per quanto riguarda quella della ricostruzione, per la quale il suddetto decreto, invece di privilegiare i lavoratori del posto, promette una giungla di subappalti ad imprese a partecipazione mafiosa e massonica, provenienti da altre zone d’Italia.
Non siamo un popolo di accattoni, vogliamo solo quel che ci spetta: il lavoro e la terra per ricominciare a sognare, per ricostruire le nostre case, per vivere con dignità, come abbiamo sempre fatto. Ma qui ci impediscono di lavorare e si prendono la terra e presto si prenderanno anche tutte le nostre macerie, la nostra storia, i nostri ricordi, le prove della loro colpevolezza oltre che della nostra vita.
Si prendono tutto il nostro tempo: il tempo che ci vuole per aprire e chiudere una tenda della protezione civile ogni volta che si entra e che si esce (stimato in media di 20′), il tempo che ci vuole (ore, giorni o addirittura mesi senza risultati tangibili) per cercare di avere notizie o documenti dall’infernale macchina del DICOMAC (DIrezione di COMAndo e Controllo, l’organo di Coordinamento Nazionale delle strutture di Protezione Civile nell’area colpita) e di quel che è rimasto degli sportelli comunali, il tempo che ci vuole per cercare di chiamare, a un numero verde sempre occupato, un autobus per potersi spostare (ore e a volte giorni), il tempo che ci vuole per gli sfollati nella costa per aspettare un autobus che non arriverà mai. L’Aquila è ormai una città assediata dalla burocrazia e dalla militarizzazione, blindatissima per il G8 ed ermetica alle concrete esigenze degli aquilani. Senza notizie e informazioni gli sfollati sono costretti a file sfibranti solo per lasciare il documento al maresciallo di turno ed uscire insoddisfatti e sfiniti, pronti per un’altra fila presso un altro com o un altro ufficio.
Fa caldo, troppo caldo nelle tende e nelle file laceranti fuori dai COM e fuori dalle mense, dalle docce, dalle tende con gli aiuti. Il tempo, scandito dalle esigenze di profitto dall’emergenza e non da quelle della ricostruzione del tessuto sociale, la convivenza forzata, la perdita totale di ogni frammento di intimità e di identità collettiva nei luoghi e nei tempi controllati dal disordine della protezione civile ed associazioni da essa accreditate, l’ozio forzato cui sono costretti gli sfollati cominciano a prendere forma nelle risse, nelle violenze alle donne e nella guerra tra poveri. E mentre i carabinieri e i media minimizzano, per evitare che questa rabbia gli si rivolga contro il generale Bertolaso chiede aiuto all’arcivescovo e ai preti: “la gente nelle tendopoli comincia a rumoreggiare, tocca anche ai sacerdoti veicolare messaggi distensivi per evitare rivolte popolari”. Naturalmente in una situazione così “surriscaldata” l’appello ai parroci potrebbe non essere sufficiente e così il controllo governativo dei campi profughi si capillarizza in chiave autoritaria, oltre che con la militarizzazione dei campi stessi, anche con la gerarchizzazione delle persone ivi ospitate. Nelle tendopoli le uniche assemblee popolari consentite e incoraggiante, quando non direttamente indette dal capo-campo della protezione civile, come è successo a piazza d’armi, sono quelle per simulare la libera elezione dei responsabili civili per la sicurezza, ossia i kapò. Un kapò per ogni etnia per meglio controllare ogni comunità, praticamente scelto dal capo-campo in cambio di condizioni privilegiate nella tendopoli stessa. Altro che Stato di diritto e di democrazia! I campi sono blindati: vietato introdurvi volantini e macchine fotografiche, vietato importare ed esportare informazione e democrazia. Eppure a piazza d’armi c’è un presidio fisso della rai che non trasmette nulla di ciò che accade lì, ad eccezione delle passerelle degli sciacalli politico-istituzionali. Oltre quei cancelli e quei recinti, solerti funzionari della digos e della polizia in borghese vigilano affinché la gente rimanga ignorante, vigilano affinché tra le maglie di quelle reti non passi neanche un filo di libertà, di partecipazione.
Ma noi dobbiamo resistere, abbiamo il diritto-dovere di resistere, di partecipare al nostro presente e di essere protagonisti del nostro futuro. Vogliono fare il G8 all’Aquila? Noi abbiamo il diritto-dovere di guastargli la festa prima che la festa la facciano a noi. D’altronde se per luglio ci saranno ancora macerie le pietre non mancheranno!
NO AI CAMPI-LAGER!
NO AGLI ALBERGHI-GHETTO!
NO AL G8!
di epicentro solidale