Intervista al sociologo Luciano Gallino: l’errore della sinistra europea è di essersi adattata alla globalizzazione.
di Valentino Parlato
Questa crisi della sinistra è una crisi italiana, con Berlusconi, oppure è europea?
Direi che, seppure con molte differenze tra un paese e l’altro, è una crisi europea che ha molte forme. Basti pensare al caos del Partito socialista francese o alla deriva verso posizioni di centrodestra del labour britannico o dei socialdemocratici tedeschi. Nell’insieme direi che è una sindrome europea.
Negli anni ’70 questa sinistra era forte in Italia e in Europa. Quali possono essere le cause di questa crisi? La miopia dei dirigenti?
Il crollo dell’Unione sovietica è stato un fattore di grande importanza, non foss’altro perché ha rafforzato fortemente il centrodestra e la destra. Teniamo presente che le conquiste dei lavoratori tra gli anni ’60 e ’70 – salari decenti, prolungamento delle ferie, sabato festivo, servizio sanitario nazionale, nel nostro paese come in altri – sono stati possibili anche perché la classe egemone vedeva con grande preoccupazione l’Urss, naturalmente per il suo peso sulla scena mondiale ma anche per quello che poteva significare come sostegno – ideologico oltre che materiale – ai partiti di sinistra dell’occidente. Caduta l’Unione sovietica, la destra ha preso forza e fiato e le sinistre si sono trovate un po’ l’erba tagliata sotto i piedi. C’è un altro aspetto che in parte spiega la sconfitta, cioè il totale fraintendimento da parte delle sinistre, dei partiti socialdemocratici in particolare, del processo di globalizzazione. Mi riferisco allo scambio che è effettivamente avvenuto fra l’Occidente che ci ha messo capitali e tecnologia, e la Cina, l’India ecc. che ci hanno messo la manodopera pagata una miseria. Non hanno capito, quindi sono caduti in una prospettiva che io chiamo adattazionista: la globalizzazione c’è, perciò non resta che adattarsi ad essa. Che significa aver perso la partita ancor prima di cominciare.
Ma non ci sono anche un cambiamento nel mondo del lavoro e una perdita di importanza di esso, la fine del fordismo, la società post-industriale! si può dire una società post-industriale?
No, per due motivi. Intanto l’industria continua ad essere un settore di grande importanza in tutte le economie sviluppate. In secondo luogo i modelli di organizzazione dell’industria, messi a punto nell’arco di un secolo dall’industria manufatturiera, sono stati applicati anche ad altri settori. L’agroindustria, la ristorazione rapida, i call center utilizzano modelli di organizzazione del lavoro che sono quelli inventati un secolo fa.
Secondo lei il terziario si è industrializzato?
Gran parte del terziario ha adottato modelli organizzativi dell’industria che si fondavano, e in gran parte ancora si fondano, sull’imperativo taylorista: voi lavorate, noi pensiamo.
C’è una frase di Marx che ogni tanto viene citata: «Lo sfruttamento del lavoro vivo diverrà una ben misera base per lo sviluppo generale della ricchezza». C’è una perdita di valore nel lavoro?
Certamente sì. Perché a partire dalla fine degli anni 70 si è avuta una straordinaria finanziarizzazione dell’industria e dell’attività produttiva in generale. Quindi si sono sempre più sviluppate tecnologie complesse per produrre denaro mediante denaro, scartando per quanto possibile il passaggio attraverso le merci o facendo fabbricare le merci dai cinesi o dagli indiani. Quindi la produzione di denaro per mezzo di denaro ha portato con sé – e per certi aspetti è stata anche scientificamente cercata – la svalutazione, la sottovalutazione del lavoro manuale, del lavoro industriale.
Non potevano resistere dei partiti, il Pci soprattutto, che già avevano preso le distanze dall’Unione sovietica? Sono stati «capitolardi»?
Debbo dire, con mio rincrescimento, che sono del tutto d’accordo con questa interpretazione. La capitolazione dei partiti comunisti è stata precipitosa, e per certi aspetti inconsulta, anche se il crollo dell’Urss è stato un trauma colossale. Che il socialismo realizzato avesse crepe profonde si sapeva da tempo. Temo quindi che la definizione di «capitolardi» sia azzeccata.
Insomma, a questo punto le sinistre hanno rifiutato l’identità passata ma non si sono date una identità nuova.
Certo, perché – l’ho detto all’inizio – non avevano capito nulla del processo di globalizzazione. Non avevano capito che la globalizzazione è un aspetto di una guerra di classe globale. È una espressione che da noi fa saltare sulla sedia, anche molti a sinistra. Ma io la prendo da un libro che ho sul tavolo, un libro americano che si intitola The global class war di Jeff Faux, fondatore dell’Economic Policy Institute, che da buon americano liberal non teme di usare le parole che occorre usare, cioè conflitto di classe. Mentre le nostre sinistre hanno rimosso l’idea stessa di classe sociale.
Cosa fare per tornare forti e protagonisti?
Dall’89 sono passati 20 venti anni. Quello che si è smontato in vent’anni non è che si possa rimontare in poco tempo. Sicuramente un recupero della teoria critica, intesa non soltanto come recupero dei francofortesi che, comunque, avevano molte cose da dire. Ma anche come capacità di analizzare a fondo il processo dell’economia globale, come ad esempio sanno fare molti centri studi liberal americani, perché se uno vuol capire qualcosa finisce che deve passare di lì. Gran parte del nostro centrosinistra è molto più a destra dei liberal americani, quindi bisognerebbe partire dall’analisi delle classi, da una analisi seria del processo di globalizzazione.
Adesso Bertinotti dice confluiamo nel Pd.
Il Pd è certo un aggregato un po’ singolare. Debbo dire che nelle conferenze, nei seminari che faccio, negli incontri ai quali sono spesso invitato anche dal Pd, scopro che molti interlocutori sono di sinistra. È vero che sapendo che io sono di sinistra c’è una sorta di pre-selezione, comunque credo che nel Pd ci sia davvero una componente di sinistra. Però il confluire nel Pd non mi parrebbe una soluzione.
E per esempio l’unificazione fra Sinistra e libertà e Rifondazione! a me non convince. Non potrebbero mettersi insieme e cercare di definire un programma di sinistra, sulla base di un programma poi unificarsi, mettersi d’accordo!
Sì. Credo che la partenza dovrebbe essere l’analisi, la critica, l’opposizione intellettuale, gli approfondimenti e un programma. E poi su questo vedere come ci si può aggregare. Però da qualche parte bisogna pur cominciare.
Dovrebbero smettere di litigare!
E sì, questo fa veramente cascare le braccia.
L’ultima domanda. Io faccio questa intervista e chiedo articoli per aprire una discussione sul che fare della sinistra. Come si rinnova e si unifica la sinistra? È utile che il manifesto cerchi di diventare un forum di questa discussione?
Direi di sì, anche perché non ce ne sono altri. Il manifesto si vede, gira, è letto. Inventarsi nuovi forum, nuovi mezzi di comunicazione mi pare – oggi come oggi – molto difficile. È chiaro che le voci, gli umori, le sensibilità sono molto diverse, quindi bisogna restare assai aperti. Però mi pare che lo spazio ci sia e che in ogni caso qualunque sforzo di allargarlo può essere utile.
Il tuo è un contributo a questo lavoro e ti ringrazio molto.
[Fonte Il Manifesto]
di dal Manifesto