— di Gabriele Polo, da Il manifesto
Vicenza è viva. I No Dal Molin hanno vinto la loro scommessa, contro tutti. Contro i 1.500 poliziotti e carabinieri che hanno dato allo Stato il volto dell’assedio, contro le autorità che avevano autorizzato il corteo per poi cercarlo di renderlo impossibile, contro il vuoto e la scarsa attenzione della «grande» politica che si arrampica sull’ideologia del «ritorno al territorio» per poi ignorarlo nelle difficili pratiche. La «giornata dell’indipendenza» che ieri ha aperto il ciclo di manifestazioni contro il G8 è diventata una chiamata a raccolta delle tante resistenze che attraversano il paese, ormai tutte prive (o quasi) di rappresentanza politica. Diecimila persone sono partite in corteo in un’afosa periferia vicentina, hanno costeggiato l’aeroporto militarizzato, sono state bloccate su un ponte dalle cariche del battaglione Tuscania, si sono fermate per un po’ e poi hanno ripreso la loro marcia.
Non si sono spaventate, sono «passate», lanciando così un messaggio di tranquilla forza. Il mittente non è tanto il governo italiano – che forse non merita nemmeno questo – ma sono i grandi del mondo in arrivo a L’Aquila.
Tra essi Barack Obama, cui il presidio No Dal Molin ha inviato nei giorni scorsi una lettera rimasta per ora senza risposta. Chissà se il presidente Usa vorrà ora spiegare come si conciliano i princìpi che enuncia con la costruzione di una base imposta a un’intera popolazione.
Il 4 luglio di Vicenza era iniziato già da qualche giorno. Il Comitato No Dal Molin aveva esplicitato l’intenzione di «fare il massimo possibile», in altri termini di entrare nella base. Segnale raccolto dalle forze dell’ordine che fin dalla sera del 3 luglio hanno occupato l’intera zona: due minuti di sosta sulla strada comunale ai bordi dell’aeroporto e arrivava la volante dei carabinieri. Poi, dalla mattina di ieri, polizia e carabinieri hanno messo in stato d’assedio tutta la zona, blindando tutto il percorso del corteo e predisponendo un massiccio «filtro» su strade e autostrade. Al punto da bloccare automobili e pullman – in un caso fin dentro la festa padovana di Radio Sherwood – mettendo in discussione la libertà di movimento e rallentando il flusso dei manifestanti verso il concentramento di Rettorgole.
Tutta la giornata si è svolta in questo clima d’intimidazione: il messaggio più esplicito era quello rappresentato da centinaia di uomini in tenuta antisommossa sul ciglio della strada, con il continuo rischio di «contatti» dagli esiti imprevedibili. Dietro lo striscione d’apertura – «No Dal Molin, yes we can» – centinaia di famiglie vicentine, tantissime donne e bambini, e poi le rappresentanze dei loro ormai storici alleati, i No-Tav della Val di Susa, i No-Mose veneziani, i No-Ponte siciliani, la delegazione dell’Abruzzo Social Forum. Ma, soprattutto, un lungo serpentone di donne e uomini con alle spalle tutte le battaglie pacifiste di questi anni. Mescolate tra la folla, qualche bandiera di Legambiente, Sinistra Critica, Prc, Sinistra e libertà, Pdci, Arci, Fiom. Un fluire disordinato e colorato, bianco e rosso, mentre al di là del recinto militare incombeva il blu scuro dei carabinieri.
Sono bastate poche centinaia di metri, il tempo di raggiungere la strada che passa davanti all’ingresso del Dal Molin, e i nodi sono venuti al pettine. Gli organizzatori hanno chiesto a più riprese che i tantissimi militari e blindati schierati lungo il percorso venissero ritirati all’interno della base, come recitavano gli accordi con la questura. Richiesta respinta. Così, su un piccolo ponte, un velo di scudi di plastica sostenuto da un centinaio di ragazzi del Presidio permanente ha tentato di spingere indietro i militari del Tuscania, allontanandoli dal corpo del corteo in arrivo. La carica è partita immediatamente, i caschi da motociclista hanno evitato il peggio alle teste dei manifestanti, un paio di lacrimogeni urticanti hanno reso la respirazione difficile un po’ a tutti. Il corteo si è bloccato, e mentre il ponte restava «in mano nemica», è iniziata un’assemblea presso il Presidio permanente, aspettando le prossime mosse dei militari. Nel frattempo, qualche decina di metri più indietro, un piccolo ponte di barche ha permesso a una decina di pacifisti di attraversare il canale e piantare una bandiera arcobaleno a ridosso del recinto della base e di fronte a un gruppo di agitatissimi carabinieri. Che non hanno gradito.
Incassata la carica, la manifestazione non si è dispersa: «Siamo venuti fin qui e il corteo lo vogliamo fare tutto», era la frase più ripetuta. E, constatato che i 10.000 di Vicenza non si erano fatti vincere dalla paura, i comandanti di piazza hanno deciso di far indietreggiare di qualche metro le loro truppe. Per gli organizzatori del no Dal Molin quella era già una vittoria. Riposti i propositi di entrare in massa dentro la base per «riprendersi» la loro terra, visto che un velo di plastica e qualche casco poco possono di fronte ai blindati del Tuscania, la decisione è stata quella di concludere la manifestazione sul percorso concordato con la questura. Anche a costo di pagare un altro costo finale, nei pullman bloccati a lungo dalle forze dell’ordine. Giusto per lanciare un ulteriore messaggio di controllo.
A otto anni da Genova, un movimento più piccolo per dimensioni e che vive di tante vertenze locali o settoriali, che si sente molto distante dalla rappresentanza politica e pretende di praticare la «propria» democrazia, non poteva (probabilmente non voleva) fare di più. Ora il testimone passa alle mobilitazione della prossima settimana, a partire dalla fiaccolata di domani notte, passando per i tanti messaggi che verranno lanciati ai «grandi» in Abruzzo e a Roma, fino alla manifestazione del 10 luglio a l’Aquila. Non tutti andranno ovunque e le forme della protesta contro il G8 saranno diverse e anche «divise». Ma, intanto, i No Dal Molin incassano la riuscita di una giornata che si presentava molto difficile. Ieri, almeno ieri, Vicenza ha vinto.