Fathia Fikri ufficialmente è stata uccisa da un malore: la lavoratrice di origine marocchina non si era voluta recare dal medico per paura di perdere il lavoro. Una storia drammaticamente simile a tante, troppe, altre.
Fathia non ha avuto sicuramente una vita facile: arrivata in Italia 10 anni fa fu ripudiata e abbandonata dal marito perché considerata “sterile” proprio quando si scoprì incinta della piccola Sapida; fu quindi aiutata dal comune di Acquanegra sul Chiese (Mn) con una casa popolare e buoni pasto per fare fronte alla situazione di estrema povertà in cui versava. Appena potè si cercò un lavoro e poi un altro ancora per sopperire alle spese di dover crescere da sola una bambina: fino a ieri era infatti dipendente in una cooperativa di pulizie e la sera lavorava come badante.
Da giorni Fathìa aveva forti dolori di pancia e lamentava problemi di vista, ma la paura di perdere il posto di lavoro ha avuto la meglio sulla necessità di una visita medica. Venerdì sera è caduta a terra per un malore ed è morta: Sapida, la figlia di 5 anni, l’ha vegliata tutta notte credendo che la madre stesse dormendo. Un caso simile a quello accaduto nel 2009 a Vira Orlava, la badante ucraina morta dissanguata nel barese in seguito ad un aborto spontaneo: sprovvista di documenti aveva avuto paura di andare al pronto soccorso.
Nel mantovano gli anni della povertà e degli stenti nelle campagne sono sbiaditi nei ricordi di due generazioni fa, ma davanti ad una storia simile anche la normale indignazione rimane come impietrita, non ce la fa. Così come è stato normale un blocco emotivo nel 2008 all’emergere della vicenda di Vijai Kumar, un bracciante indiano clandestino che, stremato da ore di lavoro sotto il sole nei campi del viadanese, su ordine del padrone, è stato portato a morire lontano dalla proprietà dell’azienda agricola.
Il tutto mentre i “nativi” riescono a commentare “tanto le case le danno sempre prima a loro” o ancora “anche se lavorano come schiavi almeno lavorano e non vanno in giro a rubare” denotando, se ce ne fosse bisogno, di come l’indignazione sia poca cosa di fronte ad un razzismo ormai endemico.
Uno dei due ministri che firmò la legge Bossi-Fini recentemente ha affermato che chi è razzista è uno “stronzo”, suscitando tra l’altro il plauso di una sinistra sinistrata: un paradosso che fa capire come il lavoro da fare sia enorme. Occorre sgomberare il campo dalle ipocrisie, dai buonismi e dagli errori che hanno portato a tragici provvedimenti legislativi come(oltre alla già citata Bossi-Fini) la Turco-Napolitano e la Amato-Ferrero; serve un lavoro di tessitura di rapporti umani tra lavoratori nativi e migranti e di una unità di lotta per fermare questa guerra tra poveri dove a vincere sono soltanto i profitti di padroni e sfruttatori che agiscono indisturbati tramite le bassezze propagandistiche della classe politica(non da ultima la proposta del 30% di stranieri per classe della Gelmini) e un potente sistema mass-mediatico che crea e diffonde quotidianamente paura e razzismo..
Una paura bifronte che da un lato colpisce le nostre piccole certezze già scosse in tempi di crisi e che dall’altro, sulla pelle dei migranti ha una potenzialità omicida.
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