COP15 è il prossimo grande summit che riunirà i governi del pianeta per creare un nuovo Protocollo per fronteggiare il cambiamento climatico. Molti prevedono la continuazione del “solito business” e di un approccio che farà poco più che dare carta bianca alle multinazionali e continuare quello che è stato il fallimento del Protocollo di Kyoto.
COP15 è la quindicesima Conference of Parties (COP) sotto l’egida della Conferenza Stutturale delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (UNFCCC).
La conferenza avrà luogo a Copenhagen, Danimarca, dal 7 al 18 Dicembre 2009. COP è la sezione più importante del UNFCCC e riunisce i ministri dell’ambiente una volta l’anno per discutere degli sviluppi della convention. “Si aspettano ministri e delegati ufficiali di 189 paesi del mondo”. Almeno 10,000 persone, inclusi i delegati di paesi con stato di osservatori, di gruppi dell’industria e di organizzazioni non-governative, sono attese a Copenhagen per partecipare alla conferenza.
Il sito ufficiale Danese dichiara che “gli obiettivi della conferenza sul clima sono di stabilizzare l’ammontare di gas serra emessi nell’atmosfera a livelli che impediscano pericolosi cambiamenti climatici per causa umana. Questa stabilizzazione deve avvenire in una maniera che permetta ai nostri ecosistemi di adattarsi naturalmente. Questo significa che la produzione di cibo non deve essere messa a repentaglio, e che la possibilità di creare uno sviluppo sociale ed economico sostenibile non devono essere messi in pericolo”.
In aggiunta agli eventi collaterali che avranno luogo nell’area della conferenza, ci saranno proteste pubbliche all’esterno della conferenza. Il gruppo danese KlimaX dichiara che la “Danimarca sta per ospitare il COP15 nell’inverno del 2009. Faremo in modo che questo sia un summit che i leader non dimenticheranno mai. Alzeremo le nostre voci in una maniera che non lascerà scampo. Diremo che non possiamo più accettare questa roulette russa con il cima. Loro sono i pochi, eppure le conseguenze delle loro azioni colpiscono l’esistenza di ogni essere sul pianeta. Useremo metodi di azione diretta e non-violenta perchè non possiamo permettere a pochi delegati di mettere a rischio la sopravvivenza del pianeta un minuto di più. E’ ora di riprenderci il potere”
“Copenhagen: Seattle è cresciuta”
(traduzione gastrika)
L’altro giorno ho ricevuto in anteprima una copia de The Battle of the Story of the Battle of Seattle di David e Rebecca Solnit. Esce a dieci anni di disitanza dal blocco del WTO a Seattle ad opera di una storica coalizione di attivisti, scintilla dalla quale divampò la protesta di un movimento mondiale contro le multinazionali.
Il libro è l’affascinante resoconto di quanto accadde realmente a Seattle, ciononostante quando ho parlato con David Solnit, il guru dell’azione diretta che architettò il blocco, l’ho trovato meno interessato a lasciarsi andare alle reminiscenze del 1999 che non a discutere dell’imminente summit delle Nazioni Unite a Copenhagen e delle azioni dirette pro giustizia climatica che sta contribuendo ad organizzare negli Stati Uniti per il 30 di Novembre. “Questo è esattamente un momento in linea con Seattle,” mi ha detto Solnit.”La gente è pronta a mettersi in gioco.”
Ci sono sicuramente punti di contatto tra Seattle e la mobilitazione di Copenhagen: l’enorme bacino di gruppi che saranno presenti; le diverse pratiche che verranno messe in campo; l’intenzione dei governi dei paesi in via di sviluppo a portare le istanze degli attivisti all’interno del summit. Ma Copenhagen non è semplicemente il revival di Seattle. Al contrario, si ha la sensazione che si sia prograssivamente costituito un movimento che trae la propria forza da una nuova era ma che ha anche imparato dai propri errori.
Una delle grandi criticità del movimento che i media insistono a chiamare “antiglobalizzazione” è sempre consistita nel fatto che, a fronte di una lunga lista di reclami, le alternative concrete proposte siano sempre state poche. Al contrario, il movimento che sta convergendo a Copenhagen si concentrerà su una sola tematica – il cambiamento climatico – attorno al quale tessere un’interpretazione coerente delle sue cause e delle sue possibili soluzioni che incorpora virtualmente ogni tematica sul pianeta. In questa interpretazione, il nostro clima sta cambiando non solo in ragione di particolari pratiche inquinanti ma a causa della logica che sottiene il capitalismo stesso e che pone sopra ogni altra cosa il profitto a breve termine e la crescita costante. I nostri governi vorrebbero farci credere che la stessa logica potrebbe ora essere cavalcata per risolvere la crisi climatica – con la creazione di un prodotto commerciabile chiamato “carbone” e attraverso la trasformazione di foreste e zone rurali in “lavatoi” che teoricamente dovrebbero controbilanciare le nostre emissioni.
A Copenhagen gli attivisti per la giustizia climatica sosterranno che, molto lontano dal risolvere la crisi climatica, la commercializzazione del carbone rappresenta una privatizzazione senza precedenti dell’atmosfera e che le zone di controbilanciamento in quanto risorse diventeranno zone di conquista di proporzioni coloniali. Non solo queste soluzioni basate su logiche di mercato falliranno nel tentativo di risolvere la crisi del clima, ma questo fallimento acuirà drammaticamente la povertà e le disparità, poiché gli indigenti ed i più vulnerabili saranno le prime vittime del cambiamento climatico – le prima cavie sottoposte al programma di commercializzazione delle emissioni.
Ma gli attivisti a Copenhagen non si limiteranno a sostenere questo. Avenzeranno aggressivamente soluzioni che riducono simultaneamente le emissioni e ridimensionano le disuguaglianze. Diversamente dai precedenti summit, nei quali le soluzioni sembravano secondarie, a Copenhagen le alternative acquisteranno un ruolo centrale. Per esempio, la Climate Justice Action – un’area del movimento che pratica l’azione diretta – ha chiesto agli attivisti di prendere d’assalto il centro conferenze il 16 di Dicembre. Molti lo faranno partecipando al Bike Block, pedalando insieme come “una nuova ed irresistibile macchina di resistenza” composta da centinaia di vecchie biciclette. Lo scopo dell’azione non è quello di bloccare il summit in puro stile Seattle, ma di allargarlo, trasformandolo in “uno spazio per parlare del nostro programma, un programma dal basso, un programma per la giustizia climatica, di reali soluzioni contrapposte a quelle false… Questo sarà il nostro giorno.”
Alcune delle proposte che verranno avanzate dal campo degli attivisti sono le stesse che il movimento per la giustizia globale sostiene da anni: agricoltura locale e sostenibile; sviluppo di piani per l’energia più piccoli e decentrallizati; rispetto dei diritti delle popolazioni indigene sulle proprie terre; blocco delle estrazioni dei combustibili fossili dal sottosuolo; allentamento del protezionismo sulle tecnologie ecologiche; ed il conto per queste trasformazioni dovrà essere pagato con il ricavato della tassazione delle transizioni finanziarie e con la cancellazione del debito. Alcune di queste proposte sono nuove, come l’incalzante richiesta che i paesi più sviluppati paghino un indennizzo per il cambiamento climatico ai paesi in via di sviluppo. Queste potrebbero sembrare richieste pretenziose, ma abbiamo da poco visto il tipo di risorse che i nostri governi possono mobilitare quando si tratta di salvare le elites. Come recitava uno slogan prima di Copenhagen: “Se il clima fosse una banca, sarebbe stato slvato” – non abbandonato alla brutalità del mercato.
Ad aggiungersi ad una coerente interpretazione dei rapporti di causa/effetto ed al tentativo di concentrarsi sulle soluzioni alternative, troviamo altri nuovi spunti: un approccio più ragionato all’azione diretta, in grado di riconoscere l’urgenza di andare oltre le chiacchiere ma allo stesso tempo determinato a non scivolare nel logoro copione sbirri VS manifestanti. “La nostra azione sarà di disobbedienza civile” dichiarano gli organizzatori delle azioni del 16 Dicembre. “Oltrepasseremo ogni barriera fisica che troveremo sul nostro percorso – ma non risponderemo con violenza se la polizia tenterà un’esclation” (Detto questo, non c’è verso che un summit di due settimane non includa qualche scontro tra sbirri e ragazzi in nero; dopo tutto, siamo in Europa.)
Dieci anni fa, dopo seattle scrissi un articolo per il New York Times in contrasto con le linee editoriali del giornale, in cui sostenevo che un nuovo movimento che rivendicava una forma di globalizzazione radicalmente diversa “aveva appena celebrato il suo coming-out”. Qual’e sarà invece il senso di Copenhagen? Ho girato questa domanda a John Jordan, la cui predizione di quanto sarebbe finalmente successo a Seattle ho riportato nel libro No Logo. Ha risposto: “Seattle è stato il party di dichiarazione del movimento dei movimenti, forse allora Copenhagen sarà la celebrazione dell’avvento della nostra era.”
Ad ogni modo, mette in guardia dal fatto che crescere non significa rinunciare ai rischi, rinnegando la disobbedienza civile in favore di quieti meeting. “Spero di essere cresciuto per poter diventare ancor più disobbediente” ha dichiarato Jordan, “perchè la vita in questo nostro mondo potrebbe proprio interrompersi a causa di troppi atti di obbedienza.”
(traduzione gastrika)
da globalproject.info
20 TESI CONTRO IL CAPITALISMO VERDE
No a soluzioni false! Giustizia climatica ora!
1. L’attuale crisi economica mondiale segna la fine della fase neoliberale del capitalismo. ‘Gli affari sono affari’ (finanziarizzazione, deregolamentazione, privatizzazione) non è più quindi un’opzione possibile: nuovi spazi di accumulazione e generi di regolamentazione politica devono necessariamente essere sviluppati da governi e società per mantenere in vita il capitalismo.
2. Accanto alla crisi economica, politica, nonché energetica, c’è un’altra crisi che scuote il mondo: la crisi biologica, il risultato di un divario suicida tra il sistema ecologico di mantenimento della vita che garantisce la nostra sopravvivenza umana collettiva, e il
bisogno di capitali per una crescita costante.
3. Questa crisi biologica è un immenso pericolo per la nostra sopravvivenza collettiva, ma come tutte le crisi, offre a noi, movimenti sociali, un’opportunità storica: attaccare il capitalismo alla giugulare, il suo bisogno di un’incessante, distruttiva, folle crescita.
4. Delle proposte emerse dalle élite globali, l’unica che promette di affrontare tutte queste crisi è il ‘Green New Deal’ . Questo non è il tenero capitalismo verde 1.0 dell’agricoltura organica e dei mulini ‘fai da te’, ma una proposta per una nuova fase verde del capitalismo
che cerca di ricavare profitti dalla modernizzazione ecologica frammentaria di alcuni settori produttivi chiave (automobili, energia, etc…).
5. Il capitalismo verde versione 2.0 non può risolvere la crisi biologica (cambiamenti climatici e altri problemi ecologici, come la pericolosa riduzione della biodiversità), cerca invece di trarre profitto da questa. Esso pertanto non modifica sostanzialmente la rotta di collisione con la biosfera, su cui viene indirizzata l’umanità da ogni economia di mercato.
6. Questi non sono gli anni ’30. Allora, sotto la pressione dei forti movimenti sociali, il vecchio ‘New Deal’ ridistribuì potere e ricchezza tra il ceto basso. Il ‘New New Deal’ e il ‘Green New Deal’, discussi da Obama, dai partiti verdi di tutto il mondo e anche da alcune
multinazionali, guardano al benessere per le aziende, più che per la gente.
7. Il Capitalismo verde non contesterà il potere di chi effettivamente produce la maggior parte dei gas serra: le compagnie energetiche, aeree, i costruttori di automobili, l’agricoltura industriale, ma li ricoprirà solamente di maggior denaro, per aiutarli a mantenere i loro tassi di profitto, attraverso l’attuazione di piccoli cambiamenti ecologici, che saranno troppo pochi e troppo tardi.
8. Siccome a livello globale i lavoratori hanno perso il loro potere di negoziare e richiedere diritti e salari accettabili, in un sistema ‘capitalista verde’, gli stipendi probabilmente si stabilizzeranno o addirittura scenderanno, per controbilanciare i costi crescenti della
‘modernizzazione ecologica’.
9. Lo ‘stato capitalista verde’ sarà uno stato autoritario. Giustificato dalla minaccia della crisi ecologica, ‘controllerà’ l’agitazione sociale che crescerà necessariamente dall’impoverimento, che è conseguenza dell’aumento del costo della vita (cibo, energia, etc.) e dei salari in
ribasso.
10. Nel capitalismo verde, i poveri dovranno essere esclusi dal consumo, emarginati, mentre i ricchi dovranno fronteggiare il loro continuo comportamento ecologicamente distruttivo, comprando e salvando il pianeta allo stesso tempo.
11. Uno stato autoritario, grandi disuguaglianze di classe, benessere alle società: dal punto di vista dell’emancipazione sociale ed ecologica, il capitalismo verde serà un disastro da cui non ci potremo mai riprendere. Oggi abbiamo la possibilità di andare oltre la follia suicida della crescita costante. Domani, nel momento in cui saremo abituati al nuovo regime sociale ‘verde’, quella possibilità potrebbe essere persa.
12. Nel capitalismo verde c’è il pericolo che affermati gruppi ecologici tradizionali, reciteranno la parte che I sindacati ebbero nel periodo Fordista: fingersi valvole di sicurezza per assicurare che le richieste di un cambiamento sociale, che la nostra rabbia collettiva
rimangano entro i limiti definiti dai bisogni capitalistici e governativi.
13. Albert Einstein definì pazzia come ‘fare la stessa cosa più e più volte aspettandosi risultati differenti’ . Negli ultimi 10 anni, a dispetto di Kyoto, non solo la concentrazione di gas serra nell’atmosfera è aumentata – così anche ha fatto il tasso di crescita. Vogliamo
semplicemente ancora la stessa cosa? Non sarebbe folle?
14. Gli accordi internazionali sul clima promuovono soluzioni false che spesso sono più sulla sicurezza energetica che sui cambiamenti climatici. Lontani dal risolvere la crisi, il mercato delle emissioni, i meccanismo di sviluppo pulito (CDM), di attuazione congiunta (JI),
compensazioni di C02 e così via, tutti forniscono uno scudo politico per la continua produzione di gas serra con impunità.
15. Per molte comunità del Sud del mondo, queste soluzioni false (agrocombustibili, ‘deserti verdi’, progetti CDM) sono ormai spesso una minaccia maggiore dei cambiamenti climatici stessi.
16. Soluzioni concrete alla crisi climatica non saranno inventate dai governi o dalle società. Possono solo emergere dal basso, dalla rete globale dei movimenti sociali per la giustizia climatica.
17. Tali soluzioni includono: no al libero scambio, no alla privatizzazione, no ai meccanismi flessibili. Sì alla sovranità alimentare, sì alla decrescita, sì ad una democrazia radicale e a lasciare le risorse nel suolo.
18. Come movimento emergente globale per la giustizia climatica, dobbiamo combattere due nemici: da un lato il cambiamento climatico e il capitalismo fossilizzato che lo causa, e dall’altra un capitalismo verde che non lo fermerà, ma limiterà la nostra capacità di farlo.
19. Naturalmete, cambiamento climatico e libero scambio non sono la stessa cosa, ma: il protocollo di Copenhagen sarà un’istanza centrale di regolamentazione del capitalismo verde, proprio come il WTO fu centrale per il capitalismo neoliberale. Quindi come
rapportarsi ad esso? Il gruppo danese KlimaX sostiene: trovare un buon accordo è meglio che non trovarne affatto – ma non trovare un accordo è in qualche modo meglio che trovarne uno cattivo.
20. Le possibilità che i governi giungano ad un ‘buon accordo’ a Copenhagen sono praticamente nulle. Il nostro obiettivo deve essere dunque chiedere un accordo su soluzioni concrete. In mancanza di questo: dimenticare Kyoto e chiudere Copenhagen! (Qualunque sia la tattica) .
da versuscop15.noblogs.org
Clima, non c’è più un minuto da perdere
di Daniel Tanuro
Nessun responsabile politico dubita ancora che il riscaldamento sia dovuto principalmente alla combustione di carbone, petrolio e gas naturale. Eppure il vertice sul Clima sarà un fallimento. Per questo serve una mobilitazione unitaria e massiccia come non mai.
Mentre l’urgenza è al massimo, il summit delle Nazioni Unite sul clima, a Copenaghen, non si concretizzerà con un trattato internazionale vincolante. Al meglio, i governi troveranno un accordo su una dichiarazione politica. Una di più…
I negoziati potrebbero concludersi in Messico a fine 2010. Sulla base delle posizioni attuali, potrebbero dare vita soltanto ad un testo ecologicamente insufficiente, socievolmente inaccettabile e tecnologicamente pericoloso. Conviene quindi dare l’allarme. La logica produttivista del capitalismo, la sua corsa al profitto planetario e la sua guerra di concorrenza ci stanno precipitando contro il muro. Centinaia di milioni di poveri rischiano di farne le spese e ricchezze naturali insostituibili di essere distrutte. Una mobilitazione senza confini, massiccia ed unitaria è assolutamente necessaria per imporre, nella giustizia sociale, obiettivi e misure all’altezza del pericolo. All’interno di questa mobilitazione, un’ala sinistra, anticapitalistica, deve fare sentire la propria voce.
Nessun responsabile politico dubita ancora che il riscaldamento sia dovuto principalmente alla combustione di carbone, petrolio e gas naturale. Tutti sanno dei pericoli della situazione. Il riassunto, destinato ai decisori, della quarta relazione del Giec [in inglese Iocc] – un documento che vincola gli Stati – offre una tabella degli impatti sulle risorse in acqua dolce, gli ecosistemi, la produzione agricola, le zone costiere e la salute umana. Ne risulta che la soglia di pericolo è molto inferiore alla cifra di +2°C rispetto all’era preindustriale. In realtà, nelle isole del Pacifico, le regioni artiche, le valli andine, le zone costiere del Bangladesh, la soglia è già superata. I rappresentanti dei piccoli stati insulari esigono di fare tutto il necessario per non andare oltre un aumento di 1,5°C. Poiché il mercurio è già aumentato di 0,7°C dal 1780 ed un ulteriore aumento di 0,6°C è inevitabile (considerata la quantità del gas serra accumulato nell’atmosfera), la conclusione è ovvia: non c’è più un minuto da perdere! Le condizioni di esistenza di centinaia di milioni di persone dipendono da un’azione veloce, coordinata, mondiale, per ridurre radicalmente e rapidamente le emissioni, principalmente le emissioni di CO2. Ma questa azione non arriva.
Impostura
Media e responsabili politici continuano a dire che lo scopo dei negoziati è rimanere sotto i 2°C. E’ un’impostura. In realtà, già da adesso, le relazioni del Giec non prevedono più questa probabilità. Nel migliore dei casi, la temperatura aumenterebbe “soltanto” da 2 a 2,4°C e il livello dei mari da 40 cm a 1,4 m. Quindi siamo già nella zona pericolosa. Per non impantanarci di più, che cosa bisognerebbe fare?
1°) I paesi sviluppati dovrebbero ridurre le loro emissioni dall’80 al 95% entro il 2050 (rispetto al 1990) con una tappa dal 25 al 40% entro il 2020;
2°) I paesi in via di sviluppo dovrebbero prendere delle misure affinché le loro emissioni, già dal 2020 (il 2050 per l’Africa) siano inferiori dal 15 al 30% alle proiezioni;
3°) Le emissioni mondiali dovrebbero diminuire dal 50 all’85% entro il 2050 (rispetto al 2000) e diventare nulle, e perfino negative, prima della fine del secolo;
4°) Questa diminuzione a livello mondiale dovrebbe iniziare entro e non oltre il 2015.
Queste cifre sono da considerarsi minimali, perché sono fissate a partire da modelli che tra l’altro non tengono abbastanza conto della preoccupante disintegrazione delle calotte polari. Secondo il climatologo capo della Nasa, James Hansen, se si tiene conto di questa disintegrazione, il rialzo degli oceani corrispondente alla concentrazione attuale in gas serra potrebbe essere di “parecchi metri” in qualche decennio. Conclusione: a nome del principio di precauzione gli obiettivi di stabilizzazione del clima dovrebbero essere i seguenti: almeno il 95% di riduzione delle emissioni dei paesi sviluppati entro il 2050 (rispetto al 1990), almeno il 40% entro il 2020, almeno l’85% di riduzione a livello mondiale entro il 2050 (rispetto al 2000).
Se ne fregano
Riuniti a Barcellona il 6 novembre i governi hanno concluso che era impossibile firmare a Copenaghen un trattato internazionale che avrebbe dato il cambio al Protocollo di Kyoto. Lor signori hanno altre cose da fare: salvaguardare gli utili delle banche e dei consorzi dell’automobile, ridurre i deficit aggredendo la previdenza sociale e smantellando i servizi pubblici, andare a caccia di disoccupati e precarizzare l’occupazione. Sul mercato climatico ogni capo di stato si trasforma in piazzista per promuovere i propri capitalisti “puliti”: Obama stravede per il “carbone pulito” che vuole vendere a Cinesi ed Indiani; Merkel si agita a favore dell’industria tedesca del fotovoltaico, che contende la leadership mondiale ai Giapponesi; Sarkozy prova a rifilare dappertutto le centrali nucleari dell’Areva; e i Danesi vedono nella riunione di Copenaghen una vetrina per la Vestas, il numero uno dell’eolico. La decisione di non stipulare un trattato dimostra chiaramente quali sono le vere priorità di quella gente. Ma la cosa più importante è prendere coscienza che, se stipulassero un accordo, questo sarebbe ecologicamente insufficiente, socialmente criminoso e tecnologicamente pericoloso.
Ecologicamente insufficiente
Il “pacchetto energia-clima” dell’Unione Europea prevede di ridurre le emissioni del 20% entro il 2020, cioè meno della cifra più bassa del Giec. Inoltre, più della metà dell’obiettivo potrà essere realizzata ricorrendo all’acquisto di crediti carbonio, questi “diritti d’inquinare” generati dagli investimenti “puliti” nei paesi in via di sviluppo. Il principio: quando un investimento al Sud permette di diminuire le emissioni rispetto alle proiezioni (ipotetiche), si possono mettere sul mercato dei diritti di inquinare proporzionalmente alla quantità di gas non emesso (un diritto = una tonnellata). Questi “crediti carbonio” possono sostituire le riduzioni di emissione nei paesi sviluppati. Le multinazionali sono molto ghiotte di questo sistema che permette loro di spacciare i loro investimenti al Sud per contribuzioni alla protezione del clima, di realizzare profitti vendendo crediti e di evitare gli investimenti tecnologici più costosi che sarebbero necessari per ridurre le loro emissioni al Nord.
Quanto più i governi si accorgono che il riscaldamento è una faccenda seria, tanto più studiano trucchi per produrre crediti meno cari. Così il summit di Bali ha deciso che non solo le piantagioni di alberi ma anche la protezione delle foreste esistenti sarebbe fonte di crediti (gli alberi in crescita assorbono la CO2 dell’aria). Ciò permette di mettere sul mercato crediti il cui prezzo di realizzo si aggira attorno a 2-3 € a tonnellata, rivenduti sul mercato mondiale al di sopra di 10 € a tonnellata. In realtà, più del 50% dei crediti non corrispondono a nessuna diminuzione reale e strutturale delle emissioni. Sia perché provengono da investimenti che sarebbero stati realizzati comunque, sia perché provengono da investimenti forestali, sia perché la certificazione è fraudolente (gli organismi che certificano la riduzione sono scelti e pagati dagli investitori). Secondo ricercatori dell’Università di Stanford, fino al 60% dei crediti sono fasulli. Se le imprese e i governi dell’UE utilizzano fino in fondo la possibilità che gli si offre di sostituire le riduzioni di emissioni con questi acquisti di crediti, un semplice calcolo dimostra che la riduzione effettiva di emissione sarà appena del 15% in otto anni (dal 2012 al 2020). Annualmente è meno di quanto previsto da Kyoto (8% fra il 2008 e il 2012).
Il discorso è identico negli Stati Uniti. Il progetto di legge sul clima adottato dalla Camera in giugno prevede una riduzione dell’80% entro il 2050 (considerate le loro responsabilità, gli USA dovrebbero raggiungere almeno il 95%). L’anno di riferimento è il 2005, mentre gli 80-95% del GIEC sono calcolati rispetto al 1990. Ora, fra queste due date, le emanazioni di CO2 degli USA sono passati da 5,8 a 7 miliardi di tonnellate. Entro il 2020, il progetto di legge prevede un 17% di riduzione rispetto al presente. Non solo quest’obiettivo è al di sotto dei 25 ai 40% rispetto al 1990 proposti dal GIEC, ma è anche inferiore a ciò che gli USA avrebbero dovuto realizzare entro il 2012, se avessero ratificato Kyoto. In quanto ai crediti di emissione, Washington è ancora più sfacciata di Bruxelles: potrebbero provenire non solo da investimenti riservati al Sud, ma anche dalla creazione di “pozzi di carbonio” negli USA stessi (con piantagione di alberi, seppellimento di carbone da legno e varie pratiche agricole che si presume accrescono lo stoccaggio del carbonio nei soli). Se l’industria usasse integralmente la manna dei crediti, potrebbe esimersi dal ridurre le proprie emissioni fino al 2026…
Se questi progetti europei e statunitensi servissero di base ad un trattato, il rialzamento della temperatura oscillerebbe fra 3,2 e 4,9°C, e il livello degli oceani salirebbe da 60 cm a 2,9 m… senza considerare il rialzamento provocato dalla disintegrazione delle calotte polari. Secondo la tabella degli impatti (cf sopra), ne risulterebbe “pesanti conseguenze per la sanità”, la “perdita di circa il 30% delle zone umide del pianeta”, “ulteriori milioni di persone a rischio di inondazioni costiere ogni anno”, una “diminuzione del reddito di tutte le cerealicolture a bassa latitudine”, una “tendenza della biosfera a diventare una fonte netta di carbonio” (effetto valanga del cambiamento climatico), “fino al 30% delle specie esposte ad un aumentato rischio d’estinzione” e “l’esposizione di centinaia di milioni di persone ad uno stress idrico aumentato”. Ecco, in termini molto generici, le catastrofi che si intravvedono e delle quali sono già vittime i poveri della Terra. I dirigenti lo sanno, ma, come dicevamo, hanno ben altro da fare. Comunque la loro rielezione non dipende dai dannati della terra del Tuvalu, del Bangladesh, del Perù né del Mali.
Socialmente criminoso
Non servono lunghi sviluppi per caratterizzare socialmente questa politica climatica capitalistica: centinaia di milioni di poveri sono vittime dei cambiamenti climatici mentre la loro responsabilità è quasi nulla. Si può immaginare peggiore ingiustizia? Un adattamento a un certo riscaldamento è possibile, ma esige mezzi di cui i paesi meno sviluppati non dispongono. Nel nome del principio (liberista) “chi inquina paghi”, i paesi sviluppati dovrebbero pagare ma rifiutano, semplicemente. Secondo la Pnue, l’adattamento necessario richiederebbe il trasferimento annuo di 86 miliardi di dollari da Nord verso Sud. I diversi fondi disponibili ne contengono appena 26 milioni. L’ultima riunione del G20 non ha raggiunto un’intesa per aumentare questi importi. Questa criminosa avarizia rischia di costare la vita a numerosissime persone, soprattutto donne, bambini ed anziani privi di mezzi. Alcuni parleranno di “catastrofi naturali”, ma si tratta di mancata assistenza a persone in pericolo. Non che i dirigenti capitalisti siano incoscienti, Semplicemente per loro, un buon adattamento inizia a casa propria: ad esempio, i fondi che il Land tedesco del Baden Wurtenberg investe nelle infrastrutture contro le inondazioni superano il totale dei budget disponibili per l’adattamento nei paesi in via di sviluppo. Bisogna proteggere le fabbriche, il capitale fisso, le infrastrutture tramite le quali circolano le merci!
Il passaggio del ciclone Katrina a New-Orleans insegna che anche i poveri del Nord sono minacciati. Canicole, inondazioni ed altri incidenti climatici provocheranno un numero sempre più alto di vittime nei ceti sociali con basso reddito: lavoratori, precari, disoccupati, in particolare le donne. Su più larga scala, le classi dominanti hanno per scopo di fare pagare la loro politica climatica -ma merita tale nome?- alla classe operaia, con la scappatoia del prezzo del carbonio. Per i liberisti, infatti, qualsiasi problema può essere risolto dai meccanismi di mercato, giocando sui prezzi. C’è disoccupazione perché il costo del lavoro è troppo alto, tutti lo sanno, e troppo carbonio nell’aria perché il costo della CO2 è troppo basso. Sappiamo quanto diventa efficace questo paradigma nel campo sociale: la crisi sociale peggiora senza tregua. Ebbene, sarà lo stesso per il clima: la crisi peggiorerà. Mettiamoci per un attimo nella logica della regolazione con i prezzi, e chiediamoci: quanto dovrebbe costare una tonnellata di Co2 per ridurre le emissioni del 50%? Risposta dell’Agenzia Internazionale dell’Energia: dai 500 ai 700 dollari. Al limite i padroni possono adattarsi ad una tassa carbonio moderata se ricevono la doppia garanzia che tutti i concorrenti la pagheranno e che ricadrà integralmente sui consumatori finali, cioè sostanzialmente i lavoratori. Vedono favorevolmente le proposte che mirano ad utilizzare il prodotto della tassa per diminuire i loro contributi alla previdenza sociale. Ma con un costo di 500-700 dollari a tonnellata, tutti questi copioni diventano assurdi poiché importi di questo livello significherebbero una recessione sociale così brutale che nessuno più potrebbe comprare la robaccia capitalistica.
Tecnologicamente pericoloso
Nei termini assegnati, le riduzioni di emissioni da compiere non possono essere raggiunte senza diminuire seriamente il consumo di energia, quindi anche, in una certa misura, la produzione materiale. Considerate le condizioni tecniche, tale riduzione è la condizione necessaria affinché i rinnovabili possano sostituire i fossili. Ora, il capitalismo è incapace di soddisfare tale condizione. Ogni proprietario di capitali cerca infatti di sostituire i lavoratori con le macchine per aumentare la produttività del lavoro ed incassare un sovrapprofitto rispetto ai propri concorrenti. Tutti fanno lo stesso, in tal modo il sistema è permanentemente agitato da vere convulsioni produttivistiche che mettono in circolazione sempre più merci e creano bisogni artificiali. Riscaldamento o meno, il capitale ha quindi bisogno di più energia, di sempre più energia. Per cercare di conciliare questa esigenza con le costrizioni fisiche del clima, le tre soluzioni tecnologiche che godono i favori dei capitalisti sono gli agrocarburanti, il nucleare e il “carbone pulito”.
La pazzia degli agrocarburanti è già stata denunciata con una tale abbondanza che possiamo permetterci di non insistere. Ci accontenteremo di sottolineare che un pericolo maggiore viene dalle ricerche sulla produzione di agrocarburanti con organismi geneticamente modificati. Il nucleare fa un notevole ritorno in forza presentandosi – fallacemente – come una filiera energetica senza carbonio. Oltre agli argomenti ben noti – i rifiuti, la proliferazione militare, lo stato di polizia, ecc.- bisogna precisare che i progetti in circolazione sono completamente irrealistici. Per ridurre le emissioni del 50%, l’Iea scommette su una triplicazione del parco, cioè la costruzione di 32 centrali all’anno, durante 40 anni. E’ puro delirio: la costruzione di una centrale impiega 10 anni, e le riserve note di uranio permettono appena di fare funzionare il parco attuale per una cinquantina d’anni. L’ultimogenito dei Frankenstein produttivistici è il “carbone pulito”, in altre parole lo sfruttamento massiccio delle enormi riserve di carbone (300 anni al ritmo attuale di consumo) con stoccaggio della CO2 nelle falde geologiche profonde. Rischia di serbare alcune sorprese sgradevoli, poiché nessuno può garantire l’impermeabilità a lungo termine dei serbatoi, specialmente in caso di incidenti sismici.
Scelta di civiltà
Produrre meno? Il capitalismo ne è capace solo temporaneamente, con la crisi che semina disoccupazione e miseria. In queste congiunture, fa sì che le emissioni di gas serra diminuiscono. Questo anno si abbasseranno del 3%. Ma, oltre ai danni sociali che provoca, la soppressione di attività opera alla cieca, sull’unica base del rendimento, senza riguardi per l’utilità sociale della produzione. E’ ovvio che soltanto dei pazzi potrebbero augurarsi più crisi nella speranza che ci sia meno produzione, quindi meno emissioni! Tanto più che tre miliardi di esseri umani mancano di tutto, e soprattutto dell’indispensabile. Per soddisfare i loro bisogni fondamentali – case, scuole, cure, alimenti, trasporti pubblici, acqua potabile di qualità – bisogna produrre di più. Ma questa produzione non interessa il capitalismo, perché la richiesta non è solvibile. Ora, il capitalismo non produce valori per i bisogni, bensì merci per il profitto. Quindi ci sono due sfide incompatibili: da una parte per stabilizzare il clima al livello meno pericoloso possibile, bisogna produrre meno. Dall’altra, per soddisfare i bisogni sociali fondamentali, bisogna produrre di più. L’economia di mercato non è in grado di accettare separatamente ognuna delle due sfide, accettarle assieme sarebbe per essa come la quadratura del cerchio.
Come uscirne? A meno di accettare le tecnologie degli apprendisti stregoni, non c’è via di uscita possibile senza incursioni nella proprietà privata capitalista. Per stabilizzare il clima e soddisfare i bisogni fondamentali, bisogna sopprimere le produzioni inutili o nocive (armi, pubblicità, ecc), riqualificare i lavoratori, ridurre gli orari di lavoro senza perdite di stipendio (con diminuzione dei ritmi di lavoro e assunzioni compensatorie), allargare drasticamente il settore pubblico nei settori degli alloggi e dei trasporti. L’aumento di efficienza energetica e il passaggio ai rinnovabili devono essere pianificati e realizzati indipendentemente dai costi, e la maggior parte della produzione agricola deve essere rilocalizzata tramite un sostegno all’agricoltura contadina. L’energia e il credito devono dipendere dallo statuto pubblico, e un fondo mondiale di adattamento deve essere creato a partire da salassi sugli utili dei monopoli. In quanto alla ricerca deve essere rifinanziata e liberata dalla tutela dell’industria. Tutte queste misure devono essere prese sotto il controllo del mondo del lavoro, la cui partecipazione attiva è una condizione di riuscita.
E’ più facile da dire che da fare, diranno alcuni. Certamente, implica una lotta controcorrente contro un nemico potentissimo. Ma non c’è altra soluzione possibile. La prima cosa da fare, è dirlo. Bisogna che i responsabili dei movimenti sociali, specialmente sindacali, capiscano che la lotta per il clima è molto di più di un capriccio da ambientalisti: è una scelta di civiltà che passa da una lotta allo stesso tempo ecologica e sociale – una lotta ecosocialista – contro il capitalismo. Questo sistema, come diceva Marx, esaurisce nello stesso tempo le uniche due fonti di qualsiasi ricchezza: la Terra e il lavoratore. Bisogna liquidarlo, oppure la storia rischia di finire molto male.
Traduzione di Gigi Viglino
da ilmegafonoquotidiano.it
Il controvertice a Copenaghen: dibattiti, azioni e “police warming”
Nonostante il “police warming”: gli arresti preventivi, mirati o di massa, il controvertice va avanti tra dibattiti, cortei ed azioni
“Bisogna avere chiaro chi sono i creditori e chi sono i debitori. I debitori sono gli stati del nord del mondo, i creditori sono i popoli della terra e sopratutto i più poveri” dice Naomi Klein nella sera del 14 dicembre avanti a più di un migliaio di persone da tutto il mondo, sopratutto giovani, nel tendone tirato su a Christiania, lo storico quartiere autogovernato di Copenaghen.
La sala era così gremita che tantissimi non sono riusciti ad entrare. Presenti soprattutto giovani europei, dalla Francia, dall’Italia, dalla Svizzera, dal Belgio e perfino dalla Polonia e dalla Romania. “Al Cop 15 non stanno discutendo di come salvare il pianeta dai cambiamenti climatici, interviene la moderatrice dell’assemblea, discutono di economia! Gli stati e le multinazionali stanno cercando di capire come trarre profitti da questa situazione e rilanciare l’economia in crisi. Un capitalismo verde che lascia intatte le disuguaglianze e non risolve i problemi ambientali del pianeta”. Insomma come dice la pubblicità sui muri di Copenaghen “Businesses grow by reducing”, gli affari crescono con la riduzione (della Co2). Un’assemblea diversa a quelle alle quali siamo abituati in Italia sia per la brevità degli interventi dei relatori importanti sia per le modalità di discussione. È stato infatti chiesto ai partecipanti all’assemblea di scambiarsi per qualche minuto opinioni su come sarebbe dovuta essere secondo loro la mobilitazione prevista per la giornata “Reclame the power” il 16 dicembre e poi in gruppi la gente è intervenuta all’assemblea.
Al centro del dibattito è stata proprio la giornata del 16 , che vedrà in mattinata un corteo fino al Bella Center, sede della conferenza ufficiale, e che sarà il culmine di tutte le manifestazioni del controvertice. “Reclaim the power! Pushing for a climate justice” è lo slogan del corteo che cercherà di entrare all’interno, mentre alcune delegazioni delle Ong e dei movimenti presenti alla conferenza ufficiale abbandoneranno i lavori all’interno per scendere ed unirsi ai manifestanti. Si dice che a partecipare all’azione di dissenso interno ci saranno anche dei delegati ufficiali di paesi “ribelli”. Fuori al Bella Center si dovrebbe svolgere un’assemblea in cui prenderanno la parola tutte le realtà che dal basso propongono alternative concrete alle false soluzioni di mercato dell’economia capitalista, sul clima ma anche sui problemi sociali globali.
Ma l’aria continua ad essere molto tesa. Il 14 sera, verso le 22,30, dopo l’assemblea, ci sono stati dei riot attorno Christiania, in cui erano concentrati molti degli attivisti venuti per l’assemblea e la festa del movimento. La polizia è accorsa immediatamente circondando il quartiere. Nonostante le barricate alzate per chiudere l’accesso al quartiere verso le 23,30 la polizia si è fatta strada a colpi di lacrimogeni “CS”, vietati in Italia, occupandolo. I locali a quell’ora, stracolmi di gente, sono stati circondati e la gente all’interno arrestata, ammanettata e sistemata in fila seduta a terra. Un vero rastrellamento in cui sono stati utilizzati anche i cani antisommossa, gli spray al peperoncino e i manganelli.
I fermati, circa 200, moltissimi dei quali italiani, sono stati portati fuori città nelle oramai famose “gabbie dei fermati”. Nella mattinata sono stati liberati quasi tutti. Rimane in cella solo Luca Tornatore, attivista triestino, impegnato in prima linea nell’organizzazione del controvertice, accusato dei disordini della notte. Luca, con cui ho scambiato qualche parola durante il fermo, è stato arrestato insieme agli altri 200 a Christiania e come la maggior parte di loro stava semplicemente bevendo una birra in compagnia riposandosi da queste frenetiche giornate di mobilitazione.
La modalità di repressione del dissenso ha già un nome: “police warming” ossia arresti di massa per intimidire i manifestanti, arresti preventivi, sequestri di massa ogni qual volta si esprima un dissenso pubblico in città. Il rastrellamento avvenuto a Christiania tra gente che nulla aveva a che fare con i riot avvenuti da la misura di dove questa logica di arresto preventivo può portare.
“Questa non è democrazia!” ha gridato una attivista di Via Campesina nella conferenza stampa organizzata la mattina del 15, il giorno dopo i rastrellamenti a Christiania. Molti quelli che alzavano cartelli contro il “Police warming” e gli arresti di massa. Tutti hanno poi ribadito l’importanza della giornata del 16. “Ci vogliono intimidire perché hanno paura! È ancora più importante scendere in piazza domani e reclamare il potere!”. “Luca libero luca libero!” hanno scandito gli italiani presenti.
Intanto si susseguono i fermi mirati agli organizzatori della manifestazione del 16. Nel pomeriggio del 15 verso le 16,30 due poliziotti sono entrati nella sede del Klimaforum, dove si svolgono i dibattiti ed hanno arrestato due ragazzi. Sempre nel pomeriggio la polizia è entrata nel deposito delle biciclette allestito dal movimento sequestrandole per impedire che il così detto “bike bloc” partecipasse al “reclame the power” del 16.
L’azione del 16 sarà una grande manifestazione assolutamente pacifica e di massa, ma vista la forte repressione messa in campo, sarà difficile anche solo raggiungere i punti di concentramento per il corteo. Intanto negli spazi del movimento si susseguono distese ma determinate le assemblee ed i training. Se volevano metterci paura non ci sono riusciti.
Copenaghen, fallimento al vertice vittoria alla base
L’insuccesso del Vertice sul Clima è la dimostrazione di un mondo governato dalla logica del profitto e della concorrenza. Ma nella capitale danese si è mostrata una consapevolezza nuova che poggia sull’azione collettiva e può far nascere una nuova dinamica di lotta
Si sapeva che il vertice delle Nazioni Unite a Copenaghen non avrebbe portato a un nuovo Trattato internazionale ma a una semplice dichiarazione di intenti, l’ennesima. Ma il testo approvato al termine dell’incontro è peggio di qualunque cosa si possa immaginare: nessun obiettivo per le riduzioni delle emissioni quantificate, non l’anno di riferimento per la misurazione, nessuna scadenza, nessuna data.
Il testo comprende una vaga promessa di un centinaio di miliardi di euro l’anno per l’adattamento nei paesi in via di sviluppo, ma le formule utilizzate e i vari commenti sollevano timori di prestiti amministrati da grandi istituzioni finanziarie piuttosto che un reale indennizzo da parte dei responsabili per i rifiuti. L’incoerenza del documento è totale.
I capi di Stato e di Governo riconoscono che «il cambiamento climatico costituisce una delle più grandi sfide della nostra epoca» ma, al termine della quindicesima Conferenza sul problema, sono ancora incapaci di prendere qualsiasi misura concreta per affrontarlo.
Essi ammettono per primi la necessità di restare «sotto 2°C» di rialzo della temperatura, quindi la necessità di «riduzioni drastiche delle emissioni conformemente al quarto rapporto del GIEC» ma sono incapaci di firmare le conclusioni quantificate dai climatologi: almeno il 40% di riduzione entro il 2020 e 95% di riduzione entro il 2050 nei paesi evoluti. Sottolineano con enfasi la forte volontà politica» di «collaborare alla realizzazione di questo obiettivo» (meno di 2°C di rialzo della temperatura), ma non hanno niente altro da proporre che una locanda spagnola dove ogni paese, dal 1 febbraio 2010, comunicherà agli altri ciò che conta di fare.
Intrappolati dall’ipermediatizzazione che hanno loro stessi orchestrato, i Grandi della terra si sono ritrovati sotto la pressione della piazza e capaci solo di mostrare le loro sorde rivalità. E così, i rappresentanti di 26 grandi paesi hanno fatto fuori le Ong, messo da parte i piccoli Stati e steso in extremis un testo il cui scopo principale è di far credere che ci sia un pilota politico nell’aereo. Ma non c’è pilota. O piuttosto, l’unico pilota è automatico: è la corsa al profitto dei gruppi capitalisti lanciati nella guerra di concorrenza per i mercati mondiali. Il candidato Obama e l’Unione europea avevano giurato e spergiurato che le imprese avrebbero dovuto pagare i loro diritti di emissioni: ma hanno fatto marameo! Alla fine, la maggior parte di esse li ricevono gratuitamente e ci fanno profitti sopra rivendendoli e fatturandoli al consumatore! Sul resto ci si accorda. La consegna è non disturbare gli affari.
Questo sedicente accordo trasuda impotenza da tutti i pori. Restare sotto 2°C, certamente non si decreta. Sempre che sia ancora possibile, occorre assolvere condizioni piuttosto drastiche. Che comportano di consumare meno energia, dunque di trasformare e trasportare minor materia. Bisogna produrre meno per la domanda solvibile e soddisfare allo stesso tempo i bisogni umani, in particolare nei paesi poveri. Come fare? È la domanda chiave. Non è così difficile da risolvere. Si potrebbe sopprimere la produzione di armi, abolire le spese di pubblicità, rinunciare a quantità di fabbricazioni, di attività e di trasporti inutili. Ma ciò andrebbe contro la produzione capitalista, la corsa al profitto che necessita la crescita. Sacrilegio! Tabù! Risultato? Mentre le emissioni mondiali devono diminuire almeno del 80% entro il 2050, mentre i paesi sviluppati sono responsabili di più del 70% del riscaldamento, l’unica misura concreta infilata nell’accordo è l’arresto della deforestazione che riguarda solamente il Sud e rappresenta il 17% delle emissioni.
Avanzamento ecologico? No! «Proteggere» le foreste tropicali (cacciando la gente che ci vive!) è per gli inquinatori il modo più economico per mantenere il diritto di continuare a produrre (armi, pubblicità, ecc) e inquinare …dunque continuare a distruggere le foreste per il riscaldamento.
Così la legge del profitto marcisce tutto ciò che tocca e trasforma tutto nel suo opposto.
Fortunatamente, di fronte alla rovina del vertice, Copenaghen è una magnifica vittoria dal basso. La manifestazione internazionale di sabato 12 dicembre ha raccolto circa 100.000 persone. Il solo precedente di mobilitazione tanto massiccia su questo tema è quello dei cortei che hanno raggruppato 200.000 cittadini australiani in diverse città contemporaneamente,nel novembre2007. Ma si trattava di una mobilitazione nazionale e l’Australia subisce con forza gli impatti del riscaldamento: non è (ancora) il caso dei paesi europei da cui sono venuti la maggior parte dei dimostranti che, nonostante una repressione poliziesca selvaggia, hanno investito la capitale nordica al grido di “prima il Paneta, prima i popoli”.
Di fronte all’incapacità totale dei governi, di fronte agli interessi economici che impediscono di adottare le misure per stabilizzare il clima nella giustizia sociale, sempre più abitanti del pianeta capiscono che le catastrofi annunciate dagli specialisti potranno essere evitate soltanto cambiando radicalmente politica.
Copenaghen simboleggia questa presa di coscienza. Essa è espressa dalla partecipazione di attori sociali che, fino a poco tempo, si tenevano lontani dalle questioni ambientali, o addirittura le guardavano con diffidenza: organizzazioni di donne, movimenti contadini, sindacati, associazioni di solidarietà Nord-sud, movimento della pace, raggruppamenti altermondialisti, ecc.
Un ruolo chiave è giocato dai popoli indigeni che, lottando contro la distruzione delle foreste, (con un rapporto di forza paragonabile a quello di Davide che affronta Golia!), simboleggiano al tempo stesso la resistenza alla dittatura del profitto e la possibilità di un’altra relazione tra l’umanità e la natura.
Queste forze hanno in comune di puntare maggiormente sull’azione collettiva che sull’attività di pressione, cara alle grandi associazioni ambientali. La loro entrata in scena sposta radicalmente il centro di gravità. Ormai, la lotta per un trattato internazionale ecologicamente e socialmente efficace si giocherà nelle strade – piuttosto che nei corridoi dei vertici – e sarà una battaglia sociale – più che un dibattito tra esperti.
Mentre il vertice ufficiale partoriva uno straccio di carta, la mobilitazione sociale e il vertice alternativo hanno gettato le basi politiche dell’azione da condurre dal basso nei prossimi mesi: “Change the system, not the climate„, “Planet not profit„, “bla bla bla Act Now„, “nature doesn’t compromise„, ““Change the Politics, not the climate„, “There is no PLANet B„.
Nonostante i suoi limiti (che riguardano il ruolo delle Nazioni Unite, in particolare) la dichiarazione del Klimaforum09 è un buon documento, che respinge il mercato del carbonio, il néocolonialismo climatico e la compensazione (“offsetting„) delle emissioni con piantagioni di alberi, o altre tecniche bidone.
Sempre più gente lo capisce: il deterioramento del clima non è il risultato “dell’attività umana” in generale bensì di un modo di produzione e di consumo intollerabile. E ne traggono la conclusione logica: il salvataggio del clima non dovrebbe derivare soltanto da un cambiamento dei comportamenti individuali, richiede al contrario dei cambiamenti strutturali profondi. Si tratta di addebitare questo carico al profitto, poiché questo comporta inevitabilmente la crescita esponenziale della produzione, dello spreco e del trasporto di materia, dunque emissioni.
Disastro, fallimento del vertice? Ottima notizia invece. Ottima notizia, perché è il momento di fermare questo ricatto che impone che in cambio di meno emissioni si debba dare vita a più neoliberismo e più mercato.
Eccellente notizia perché il trattato che i governi potrebbero concludere sarebbe ecologicamente oggi insufficiente, socialmente criminale e tecnologicamente pericoloso: implicherebbe un rialzo di temperatura tra 3,2 e 4,9°C, una salita del livello degli oceani di 60cm a 2,9 metri (almeno), ed una fuga in avanti nelle tecnologie di apprendista-stregone (nucleare, biocombustibili, Ogm e “carbone proprio” con stoccaggio geologico di miliardi di tonnellate di CO2.
Centinaia di milioni di poveri sarebbero le principali vittime. Notizia eccellente poiché questo fallimento dissipa l’illusione che la “società civile mondiale” potrebbe, con “la buona gestione”, associando tutti «azionisti» trovare un consenso climatico tra interessi sociali antagonistici.
È il momento di vedere che, per uscire dai combustibili fossili, ci sono due logiche completamente opposte: quella di una transizione guidata alla cieca dal profitto e della concorrenza, che ci conduce diritto contro il muro; e quella di una transizione progettata coscientemente e democraticamente in funzione delle necessità sociali ed ecologiche, indipendentemente dai costi, dunque ricorrendo al settore pubblico e condividendo le ricchezze. Questa via alternativa è la sola che permette di evitare la catastrofe. Il re è nudo.
Il sistema è incapace di rispondere al problema gigantesco che egli stesso ha creato se non infliggendo danni irrevocabili all’umanità ed alla natura. Per evitarlo, è tempo della mobilitazione più ampia. Siamo tutte e tutti coinvolti e coinvolte. Il riscaldamento del pianeta è molto più che una questione “ambientale”: è una minaccia sociale, economica, umana ed ecologica che richiede obiettivamente un’alternativa ecosocialista. La questione di fondo è questa: il capitalismo, come sistema, ha superato i suoi limiti. La sua capacità di distruzione sociale ed ecologica prevale chiaramente sul suo potenziale di progresso. L’augurio è che questa constatazione possa aiutare a fare convergere le lotte a favore di un’altra società. I dimostranti di Copenaghen hanno aperto la via. Ci invitano a raggiungerli nell’azione: “Act now. Planet, not profit. Nessun compromesso sulla natura».
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