Presentato alla facoltà di Psicologia di Roma il libro “Gli studenti della Pantera”. Un dibattito-convegno che ha permesso ai protagonisti di allora, e agli studenti di oggi, di ridiscutere genesi e fine di un movimento di massa che contestò in radice la privatizzazione dell’università
Perchè rivangare la memoria della Pantera, il movimento che occupò dalla fine dell’autunno dell’89 fino a maggio del ’90, 140 facoltà in tutta Italia e un’altra settantina le mise in agitazione? «Perché avevamo ragione e ce l’abbiamo ancora, sul diritto allo studio, contro le privatizzazioni. Avevamo ragione a dire che il crollo del Muro non era la fine della storia, a farci promotori di un’altra idea di democrazia», risponde Nando Simeone, occupante di Psicologia, vent’anni fa, alla Sapienza di Roma, e autore di “Gli studenti della Pantera” per la casa editrice Alegre. Veniva dall’85, Simeone, dalla scossa di mobilitazioni studentesche, soprattutto di studenti medi, contro una finanziaria di Craxi che tagliava selvaggiamente sul diritto allo studio. Sembra quasi che, cinque anni dopo, quando quella generazione si sarebbe riversata tutte negli atenei, sia riscoccata la scintilla. Ecco il punto: perché e quando si incendia una prateria? E perché quel movimento – così lungo e persistente che ci sono voluti diciannove anni perché gli universitari in lotta si dessero un nome diverso – sia stato rimosso, non abbia mai trovato una propria narrazione? Estremamente attuale, il libro di Nando Simeone – che poi sarebbe diventato un dirigente di Dp, prima, e di Rifondazione poi fino a uscirne con Sinistra critica – colma un vuoto che, non fosse per un paio di instant book dell’epoca, era abissale.
Il debutto in società del volume è avvenuto venerdì scorso, il 29 gennaio, in un’aula piena della facoltà di Psicologia, non lontano dai segni lasciati dalla Pantera nel cortile e nelle aulette ancora abitate dai collettivi. Più che una presentazione canonica s’è trattato di un convegno, un’assemblea aperta, con interventi che s’alternavano ai documenti video (dei registi Leonardo Celi e Daniela Ughetta) in una dimensione attenta a intrecciare memoria e attualità, non a caso l’attuale collettivo di Psicologia ha preparato uno degli interventi centrali sulle affinità e le divergenze tra Onda e Pantera; e ha gestito la logistica e l’accoglienza dell’evento. E’ stato ricordato da più di una voce che fu un movimento capace di riappropriarsi di luoghi e di risorse negate (si pensi ai fax o alle fotocopiatrici ma, in generale, agli immensi spazi delle cittadelle universitarie anche allora gestiti in maniera privatistica dai “baroni”), di innovazione di pratiche politiche e comunicative. La vicenda del logo, raccontata da Fabio Ferri, grafico pubblicitario da sempre interno ai movimenti, è emblematica di quel percorso che, sebbene finì drammaticamente dopo 48 ore di presidio ininterrotto sotto Montecitorio che non riuscì a bloccare il varo della riforma Ruberti, diede inizio a una resistenza di lunga durata che per vent’anni ha inceppato la macchina bipartisan della privatizzazione e rallentato la mutazione genetica dell’università. Non solo, quella generazione – che stentò a trovare alleati mentre occupava le università – si riversò senza tornare a casa innovando la forma centro sociale, fornendo linfa alla nascente Rifondazione, per ritrovarsi nelle ondate no global e no war di dieci anni dopo. «Bella, sensuale, inafferrabile, combattiva», dirà Ferri, la Pantera fu in grado di usare i media e non esserne stritolata (cosa che forse il movimento no global non sarebbe riuscito a fare). Fu capace di «autonomia culturale», ha sintetizzato Tano D’Amico, fotografo e straordinario narratore, e da essa si sprigionarono «piste in controtendenza (il teatro di strada, le occupazione neoruraliste, il lavoro tra i migranti, ndr)», ha aggiunto Roberto De Angelis, docente allora come oggi, che si domandò come mai un movimento di tale portata scoppiasse per una riforma che pochi conoscevano e che sembrava di là da venire: «I movimenti sembrano scosse telluriche, nascono dall’effetto di accumulazione», è la risposta che a offerto all’uditorio. Un’altra domanda ha viaggiato lungo i vari interventi: se fosse un movimento riformatore (come sostenuto da Daniela Volpini, allora occupante con la Fgci, oggi docente a Psicologia) o piuttosto controculturale e di radicale critica sociale. Il libro di Nando Simeone serve anche a cercare questa risposta: «Fu un movimento anticapitalista in maniera istintiva – ha detto l’autore – cos’altro può significare il tentivo di sottrarre il sapere al mercato?».