Miserie e (poche) nobiltà della Confindustria nostrana nel libro di Filippo Astone “Il partito dei padroni” edito da Longanesi
Un altro segno della crisi della sinistra è il libro di Filippo Astone “Il partito dei padroni” (Longanesi, 383 pg., 17,60 euro). Un giornalista in forza al Mondo, il settimanale della Rcs, il giornale del salotto buono; una casa editrice che non sta nella tradizione della sinistra culturale italiana anche se oggi è un tassello di quel gruppo Mauri Spagnol che rappresenta l’outsider principale contro Mondadori e Rizzoli. Eppure il libro costituisce un’analisi impietosa, di quelle che la sinistra non riesce a fare, di quello che è oggi la classe padronale italiana, dei suoi equilibri politici interni e dei suoi comportamenti in diretta sul campo, a volte al limite del voltastomaco. Come il caso che Astone sceglie di mettere in apertura del libro per presentare “la faccia truce dei padroni” quella della Umbria Olii, distrutta da un incendio nel quale persero la vita cinque operai, bruciati vivi. Giorgio Del Papa, amministratore delegato e principale azionista dell’azienda, ha citato le famiglie degli operai morti chiedendo un risarcimento di 35 milioni di euro perché l’incendio sarebbe stato provocato dalla noncuranza di quei poveri lavoratori. Un’infamia oltre che un’ingiustizia, hanno risposto le famiglie, che si sono rivolte anche al Capo dello Stato (cosa ha risposto?) e che piene di rabbia e di dolore sono costrette a sostenere un vero e proprio processo giudiziario.
La faccia truce
Faccia truce o vero volto? A fronte di un caso come questo, il libro mette in evidenza come invece Condindustria, il partito dei padroni, cerchi invece di presentarsi con un volto moderno, riformatore, in cerca di una stabilizzazione del paese e di un clima politico meno rissoso. Il volto “cool” di Luca Cordero di Montezemolo, cresciuto in casa Fiat, uomo dalle mille poltrone e dalle ambizioni politiche soffocate a fatica, leader dell’associazione imprenditoriale e poi, dopo la successione di Emma Margegaglia, presidente di una Fondazione, Italia Futura, con la quale provare a tessere una strategia politica. Oppure il volto più ruspante e pragmatico dell’imprenditrice mantovana che a differenza dell’ex presidente Fiat, ha dislocato la Confindustria decisamente dalla parte del governo Berlusconi in cambio di favori, piccoli privilegi, vere e proprie prebende (anche per la propria famiglia, come dimostra il caso dei lavori alla Maddalena per il G8).
Se il caso della Umbria Olii è certamente il più estremo, è anche vero che dietro il volto suadente e moralizzatore, si nasconde un incessante lavorìo per ottenere risultati concreti da questo o quel governo. E dal governo Berlusconi Confindustria di risultati ne ha ottenuti non pochi come Astone scrive: la privatizzazione dei servizi pubblici locali con una possibile «grande abbuffata» da circa 100 miliardi di euro; la promessa del nucleare, con un giro di affari che supera i 30 miliardi; la riforma della scuola con gli incentivi agli istituti tecnici, il rilancio dei professionali, e un’università che viene di fatto consegnata ai privati; e poi tutti i tipi di incentivi, la detassazazione degli utili, il fondo di credito per le piccole imprese e altro ancora. Certo, ci sono le delusioni, la riduzione delle tasse che non arriva, grandi opere infrastrutturali che non decollano ma sostanzialmente il programma di governo segue pedissequamente quello di Confindustria. Perché, il punto è questo, il “partito dei padroni” si muove come un vero partito, ha una struttura di oltre 4 mila dipendenti per rappresentare 142 mila imprese, e ha un suo programma politico che resta piuttosto immutato nel tempo, presidente dopo presidente.
Il programma dei padroni
Un programma politico che si riassume in un’ideologia da «far west” in cui l’impresa deve essere liberata da “lacci e lacciuoli”, libera nei suoi affari e nel suo profitto, messa al centro della vita politica e sociale. I quattro punti fondamentali di questo programma sono così definiti: «Privatizzare qualunque cosa tranne (per ora) l’aria; abbassare drasticamente le imposte e pertanto la spesa pubblica; riformare radicalmente la contrattazione e il diritto al lavoro per ottenere la massima flessibilità e minori costi; adoperarsi per attuare le riforme indispensabili a un paese moderno» cioè burocrazia più efficiente, infrastrutture, incentivi a ricerca e sviluppo. Questo programma non cambia mai e le richieste ai governi di turno sono sempre le stesse. E, se guardiamo agli ultimi venti anni, ci accorgiamo che questo programma è stato pazientemente applicato con certosina precisione (anche se questo non basta ancora al “partito dei padroni”) sia dai governi Berlusconi che da quelli del centrosinistra.
Ma siccome non basta mai, la Confindustria si esercita con foga e determinazione nel “j’accuse” contro la politica, i suoi ritardi, i suoi riti, i suoi costi, additati come responsabili non secondari – i responsabili principali sono sempre i sindacati – dell’impasse italiana. Solo che quando si guarda in casa padronale ci si accorge – e questo il libro di Astone lo permette benissimo – che quei costi, quei ritardi, quelle alchimie sono esaltati all’ennesima potenza. Confindustria gestisce un bilancio complessivo – compresi i bilanci delle Unioni provinciali e regionali – di oltre 500 milioni di euro ma nessuno ne sa nulla (mentre per i bilanci dei sindacati viene chiesta, giustamente, la massima trasparenza); le sue regole interne, per l’elezione del Presidente, della Giunta, del Direttivo, delle svariate strutture che si controllano a vicenda, sono degni «del Partito comunista cinese». La lotta per il controllo delle Unioni provinciali, delle Commissioni nazionali e della Presidenza è senza esclusione di colpi. Al suo interno vivono correnti, cordate – ancora poco noto il “Salotto buono 2” che lega Cordero di Montezemolo, Della Valle, Luigi Abete, Vittorio Merloni – gli sgomitamenti delle ex aziende di Stato oggi colossi energetici come Eni e Enel. In prima fila nella lotta contro le “caste”, Confindustria è un fior di casta, con i suoi mandarini e i suoi nepotismi, i costi eccessivi ma soprattutto i danni sociali che le sue scelte politiche provocano.
La casta confindustriale
Messe di fila, nel capitolo titolato “La casta di lorsignori”, le principali gesta confindustriali smentiscono platealmente quell’ideologia a base di meritocrazia e modernità, di flessibilità e crescita economica che pure professano. Anzi, descrivono «una foresta pietrificata» che ha grandi responsabilità nell’edificazione del “caso italiano”. Il modo con cui Tronchetti Provera ha spennato gli azionisti Pirelli e poi quelli Telecom; il modo con cui Geronzi è stato portato alla presidenza di Generali senza essersi mai occupato di Assicurazioni in vita sua; il gioco delle scatole cinesi che permette a John Elkann di decidere i destini della Fiat possedendone direttamente solo il 6%; gli stipendi e le stock options che intascano i proprietari-manager delle imprese anche quando producono perdite favolose e senza alcun principio meritocratico; il caso Alitalia, Fastweb, senza dimenticare Parmalat e Cirio. Una carrellata che permette a Astone di concludere il libro con questa considerazione: «All’inizio ci siamo chiesti se, e in quale misura, i protagonisti del capitalismo nostrano abbiano corresponsabilità nella deriva italiana. A partire da una domanda: ma Marco Tronchetti Provera, Emma Marcegaglia, Luca Cordero di Montezemolo sono poi così diversi da Antonio Bassolino, Rossa Russo Jervolino e Mara Carfagna? Alla fine del viaggio la risposta è no». Le similitudini posso essere ampliate ma la sostanza è quella: una classe dirigente dedita a bacchettare tutto e tutti, a dispensare consigli all’universo mondo, si è arricchita grazie a quello Stato che vuole abbattere e grazie a sacrifici enormi di lavoratori e lavoratrici. Eppure è ancora lì, intoccabile, impunita che si erge a grande moralizzatrice, foraggiata e sostenuta dal cuore dell’ideologia berlusconiana che vuole l’imprenditoria come modello sociale di riferimento contro la politica parassitaria. Un modello che ha plasmato la società italiana e che costituisce oggi forse il vero lascito degli ultimi venti anni.