di Giorgio Cremaschi [articolo pubblicato su “Liberazione”]
Le rappresaglie antisindacali che la Fiat sta pianificando in questi giorni a Melfi come a Mirafiori, sono atti di autentico fascismo aziendale. Si perseguitano i delegati che organizzano gli scioperi contro i carichi di lavoro eccessivi e gli impiegati che informano i colleghi della solidarietà degli operai polacchi con quelli di Pomigliano. La libertà di sciopero, la libertà di informazione, la libertà di pensiero, le libertà in quanto tali sono oggi in discussione alla Fiat. All’origine di tutto questo c’è la strategia industrialmente debole, ma furba e arrogante di Sergio Marchionne. L’amministratore delegato della Fiat non è mai stato un industriale. E’ un banchiere svizzero chiamato a salvare la Fiat dal fallimento. (…) Questa operazione è riuscita al prezzo di durissimi sacrifici dei lavoratori e, come sempre avviene nell’economia finanziaria, ha portato ingenti guadagni a Marchionne. L’amministratore delegato della Fiat è stato poi così chiamato a salvare la Chrysler, che la Mercedes aveva abbandonato. Lì, con l’aiuto di ingenti finanziamenti pubblici, è riuscito a piegare i sindacati. Che prima accusava di miopia e intransigenza e che invece oggi elogia con gli stessi toni con cui il generale Custer parlava degli indiani chiusi nelle riserve. Marchionne ha poi riportato in Italia quel successo e, usando una carta che da noi funziona sempre, si è presentato come il libero americano che mette a posto i fannulloni assistiti. Ha così ottenuto un consenso pressoché unanime nel Palazzo. Che non si è certo chiesto perché importanti dirigenti abbiano abbandonato la Fiat per dirigere altre aziende delle auto in Europa. Che non si è certo interrogato sulla credibilità di un piano industriale che si fonda su numeri presi dal libro dei sogni della vecchia Fiat – 6milioni di auto prodotte assieme alla Chrysler. Nessun spirito critico in Italia verso le strategie della Fiat. Di questo Marchionne ha approfittato coprendo così debolezze e contraddizioni. La ripresa di Pomigliano, promessa tra 2 anni, serve a coprire la chiusura – oggi – di Termini Imerese. L’accordo separato, con Cisl e Uil e altri amici, serve a coprire il flop del plebiscito richiesto ai lavoratori. I licenziamenti di delegati e militanti sindacali servono a coprire i fallimenti di un’organizzazione del lavoro che vuole imporre ritmi e condizioni che consumano le persone e possono funzionare solo con la soppressione dei più elementari diritti. Infine l’autoritarismo e l’intimidazione servono solo a coprire il clima di ottuso ossequio con cui si distrugge ogni forma di partecipazione e creatività dei lavoratori. Sì alla Fiat c’è il fascismo, non solo perché si colpiscono le libertà e i diritti dei lavoratori. Ma perché così si coprono mancati investimenti, burocratismi, servilismi e clientele che prosperano e rendono inefficiente l’azienda più di prima. Marchionne è tanto piaciuto a Scalfari perché ha dichiarato di porsi dopo la nascita di Cristo. Sicuramente la sua cultura e la sua pratica sono però antecedenti alla costituzione repubblicana ed eredi di quella pessima tradizione delle classi dirigenti italiane che coniugava inefficienza e propaganda, privilegio e autoritarismo. Lo svizzero americano Marchionne è un padrone italiano collocato tra gli anni 30 e gli anni 50.