All’avvicinarsi del decennale di Genova ‘01 ho provato a scrivere qualche cosa a partire dalla mia esperienza, anche solo per non dimenticare quello che è stato. Un tentativo di narrazione soggettiva, un bisogno di riprendere i ricordi e una voglia di riflettere su ciò che quei giorni hanno rappresentato, per il movimento e per chi lo vive. Perché il racconto ha un’angolatura tutta particolare e oltre alle immagini ormai familiari, ci sono anche altri modi di trasmettere ciò che a Genova si è vissuto.
NON DIMENTICARE, GUARDIAMO INDIETRO… PER PROSEGUIRE
luglio, 2011
Un proverbio persiano dice: «Se vuoi farti un nome,
viaggia o muori». Lui non voleva un nome,
quel mattino di luglio voleva andare al mare.
La strada era già un mare,
le ondate di migliaia dietro migliaia dentro le piazze,
i vicoli, nei viali, allagavano Genova città. (…)
Dice il proverbio persiano: «Se vuoi farti un nome,
viaggia o muori». Dieci anni più tardi il suo nome viaggia
insieme alle onde che sono la maggioranza del mondo.
Tratto da Erri de Luca, “20 luglio 2001” in Per sempre ragazzo, Tropea ed., 2011.
Gli anniversari sono spesso date pesanti, sono come uno schiaffo ben assestato sulla guancia. Dapprima ci confondono un po’ perché bisogna prendere del tempo per mettere a fuoco la situazione.
Il 2011 è uno di questi anniversari, un decennale per l’esattezza, quello del nostro 2001, il caldo luglio nel quale i sogni e le aspirazioni di un altro mondo possibile sono stati soffocati nel fumo dei lacrimogeni, spezzati dai tonfa usati al contrario e ammazzati con un colpo di pistola in piena faccia.
Genova ha segnato profondamente i nostri animi inscrivendosi nella carne e piantandosi nella testa.
Ripensare a Genova, a quei 10 anni di distanza, significa tornare indietro, ripensare a quello che ero, al come eravamo allora. Vuol dire rivestire i panni di quei 19 anni consumati veloce e vorace, in una stagione molto diversa da oggi. Perché farlo allora?
Non è una domanda retorica, non è automatico scegliere di guardarsi alle spalle, capire la distanza e valutare i cambiamenti, quelli personali e quelli nelle convinzioni che si sono forgiate negli anni, nei tentativi, nei lividi, nelle sconfitte ma anche nelle risate, negli entusiasmi e nelle lotte.
Scegliere di ricordare comporta difficoltà a chi ricorda perché alle volte è doloroso, anche solo per rivedersi quello di un tempo…passato, ma il difficile viene quando ci accostiamo al racconto, alla responsabilità di presentare non una foto che cerca di riprodurre quello che c’era e non c’è più, ma parlare di ciò che si è vissuto e che ci stimola a riflettere anche ora, a distanza di tempo.
Quello che spesso mi turba è quella retorica eroica di chi si ferma alla radiocronaca degli scontri, non perché non siano interessanti o peggio perché non li trovo giusti (al contrario!) ma perché se Genova ci ha cambiati (e lo ha fatto!) non possiamo limitarci a giocare ad una protomitologia contemporanea che sa tanto di quel riot porn in cui spesso rischiamo di cadere.
Voglio provare, non tanto a fare la cronaca di quel che ho visto perché per farlo ci sono trenta documentari, ma mettere in relazione ciò che ho vissuto con la storia del movimento, che come noi è stato influenzato e limitato non poco dalla sindrome di Genova.
Come ogni storia, la mia è soggettiva e parziale, è quella di chi è saltato prima su un pulmino carico di caschi e poi su uno dei primi treni in direzione Genova, all’indomani di una maturità ottenuta nonostante le assenze “causa manifestazione”.
Una storia che è anche collettiva e che si snoda tra lo stadio Carlini prima e la maledetta via Tolemaide dopo. Che comincia però prima, parecchio prima.
Genova non è cominciata a luglio, no. Si respirava in tutta la penisola un’aria particolare da mesi ormai, la primavera era bollente e costellata di iniziative in ogni città, in ogni fottuto paesino qualcuno parlava di Genova, organizzava una serata sul G8.
Dopo un’ondata partita dalle immagini televisive di Seattle in rivolta nell’autunno del crepuscolo del millennio, vi era una frizzante energia di vitalità e discussione che sprizzava da entità assai differenti. Non solo i centri sociali, ma quel vasto mondo dell’associazionismo che forse per la prima volta dopo troppo tempo si interessava anche di questioni di largo orizzonte politico.
La globalizzazione accellerava i suoi ritmi, la governance globale era salita in cattedra e dettava le regole, i Paesi dell’est erano il laboratorio eccellente di una nuova stagione di liberismo sfrenato come simboleggiato dall’incontro del Fondo Monetario Internazionale a Praga l’anno prima: il capitalismo senza rivali veniva a celebrarsi nei luoghi che diventeranno il nuovo serbatoio di sfruttati per le fabbriche di auto europee. L’euro stava per entrare in vigore e dietro l’Europa vi erano allora solo speranze che si sono rivelate delle enormi cantonate.
Il movimento c’era, si agitava nelle vene delle metropoli, attraverso i capillari agenti di opposizione giocati dai centri sociali, assai più vitali che ora (anche se già allora si allontanavano i tempi d’oro…), le scuole superiori e le università sapevano essere laboratorio di immaginari conflittuali. La globalizzazione diventa una parola che federa opposizioni diverse, complesse e pompa nuova linfa di critica radicale in un contesto dove la caduta del muro aveva svelato l’irriducibile complessità della realtà sociale.
La fase di allora era caratterizzata dai “grandi vertici” che comportavano un arrogante esercizio di dominio dei potenti della terra che decidevano il proprio volere in summit blindati attorno ad un tavolo come i cavalieri medioevali a spartirsi le terre. Accanto a questi happening sorgevano delle campagne di opposizione e delle manifestazioni di protesta spesso di massa e talvolta virulente.
L’Italia ha avuto diritto di conoscerne una prima di Genova, finita poi nel dimenticatoio rispetto alla grande scadenza seguente. Nel marzo del 2001 a Napoli si incontrano governanti per il g8 sull’e-governement. Ah, dimenticavo non c’era Berlusconi, è arrivato subito dopo, c’era il centro sinistra al governo, un democristiano all’interno (come era solito essere a prescindere…) e soprattutto gli sbirri a menare per difendere la zona rossa. Decine di feriti, mazzate a gogo in un episodio significativo per dire che chi vuole rovinare le vetrine del potere si rovina la testa.
Caccia all’uomo attorno a piazza Plebiscito e i tribunali poi a designare sovversivi per le patrie galere.
Ma l’energia montava, l’Italia era scossa, ne parlavano tutti e non solo per lanciare un allarme fatto di gavettoni di sangue infetto da far cadere sui poliziotti da aeroplani telecomandati, ma anche con la voce di chi, in mille comitati parlava di andarci a Genova, gridava di opporsi al massacro dei diritti (lavoro, cittadinanza, questioni ecologiche) e al dominio del profitto.
Eccoci lì, eccomi là, anch’io nel mio piccolo, c’ero.
Ero stato a Praga, dopo esser scappato di casa e al termine di 35 ore di viaggio nel treno della speranza (e a dir la verità aver visto una pallosa manifestazione d’area, statica, a giocare a rubabandiera con 2000 robocop praghesi, ma vabbé).
Ero stato pomeriggi nel “mio” (d’appartenenza, non di possesso) centro sociale a rinforzare il casco con una coda di plexiglas e gomma a proteggere il collo.
Non sarei mancato per nulla al mondo. Volevo esserci.
Ma per cosa esattamente?
È qui che comincia la riflessione di prospettiva. Cosa volevo fare a Genova, cosa volevamo fare?
Ho la sensazione che il piano simbolico impostoci dal sistema di governo politico della globalizzazione ci abbia spinto a concentrarci troppo sul suo cerimoniale più che sulla dimensione concreta del suo esercizio.
Volevamo attaccare il potere globale?
O volevamo prendere noi il posto d’onore alla loro sfilata e, al massimo, rovinargli il banchetto?
Non è la stessa cosa.
La campagna politica e del movimento attorno a Genova si è svolta cercando di sfruttare ogni forma di canale di comunicazione, cercando (e riuscendo) a costruire un’attesa e delle aspettative notevoli. Parte dell’attenzione si è convogliata sull’esistenza di una zona rossa che trasformava una larga parte del centro storico della città in una zona militarizzata, vero manuale operativo dello stato di emergenza permanente con cui ci confrontiamo quotidianamente.
Dalla denuncia della zona rossa si è arrivati anche ad una un po’ pretenziosa “dichiarazione di guerra ai potenti dell’ingiustizia e della miseria”[1] passando per il ricorso alla mitopoiesi (grazie anche ai Wu Ming) nel “Dalle moltitudini d’Europa in marcia contro l’Impero”[2].
La vigilia dell’appuntamento ha visto una serie di iniziative volte a mediatizzare e rendere pubbliche le forme di lotta, in particolare per le tute bianche, solo una parte del frammentato arcipelago chiamato noglobal (termine che oggi sa di modernariato), minoritaria in termini numerici, ma egemonica nelle capacità comunicative e in grado di attirare migliaia di persone con il proprio immaginario.
Questo tipo di retoriche hanno focalizzato la lotta politica sul controvertice che si è sviluppato dunque come un evento.
L’evento di lotta a cui bisogna esserci, l’evento che preparato nei dettagli doveva non bloccare il G8, ma dimostrare la forza del movimento e la capacità di oscurare il summit dalla sfera della legittimità pubblica e mediatica.
Questo piano però non era così esplicito, o almeno per me allora non era così.
Anche nella mia città si sono fatte delle simulazioni di scontro con la polizia con l’uso delle tecniche della disobbedienza: caschi, scudi di plexiglas, gommoni e protezioni. Si trattava di costruire un consenso a delle pratiche di conflitto a bassa intensità che erano patrimonio della lotta già da qualche anno.
Perché in tanti, determinati con scudi e caschi si era riusciti anche ad incidere realmente nelle lotte, questo è importante ricordarlo. Non erano solo simulacri di una conflittualità estetica ma inoffensiva: scontri pesanti e cordoni di poliziotti sfondati sono arrivati in più di una occasione, contro i lager di detenzione (Cpt allora) o Fogna Nuova. Allora quello che aveva funzionato era la sorpresa relativa di forze di polizia non proprio preparatissime e una grande determinazione nell’attaccare e sorprendere contingenti non numerosi di sbirri.
BAM BAM BAM
lo Stalin picchia forte sullo scudo e il plexiglas oscilla rilasciando un rumore sordo, il contraccolpo lo devi assorbire appoggiandoti con il corpo il più possibile sullo scudo mentre con le mani serri forte le cinte delle rustiche maniglie cercando di proteggere il casco dalla gragnuola di colpi accostandolo al plasticone. Poi però devi spingere e forte, guadagnare terreno, passo dopo passo, guardandoti intorno a cercare i tuoi compagni…
Solo che questa è un’esercitazione, solo che qui non tirano lacrimogeni CS a frammentazione, solo che qui è falso.
Solo che qui ti capita che il compagno muratore dalle mani enormi con un pugno quasi lo spezza lo scudo. E tu scoppi a ridere insieme a lui.
Ma a Genova sarà tutto diverso.
Siamo arrivati là dopo che il trasporto dei caschi era reso così difficile che sembrava fossero ordigni esplosivi in grado di far volare Bush e gli altri gran coglioni fuori dalla città della lanterna.
Si son fatte forzature collettive per far passare i caschi con i treni di compagni e compagne in partenza per Genova, eravam almeno 300 nella grossa stazione a spingere con i cordoni per entrare nel treno.
Prima, due ore di preoccupazione nel tragitto in pulmino per le provinciali con i caschi del nostro gruppo, perché riconoscibili da lontano un miglio, con un Volksvagen scassato, in 3 rasta e 30 caschi non partivamo nemmeno…
Arrivati a Genova siamo subito operativi, si va allo stadio Carlini, uno dei punti di convergenza dei manifestanti, qui logistica e lavori per l’accampamento e per costruire i grandi scudi dei sognatori un po’ straccioni all’assalto della zona rossa.
È mercoledì 18 luglio 2001.
Il giorno dopo l’illusione del grande happening continua, gran manifestazione dei (ehm…con) i migranti per le vie del centro con la militarizzazione in progress, tanta gente, le lotte dei sans papier all’epoca non erano all’ordine del giorno e in cima a una gru come oggi…
La sera siamo in riva al mare, al porto su quel Piazzale Kennedy che presto diventerà celebre.
Il Genoa Social Forum ha organizzato il gran concerto di sostegno prima dei giorni caldi.
Si paga 10 mila lire per il sostegno, ma è tardi qualcuno ha già suonato…non abbiamo soldi veniamo da lontano e facciamo colletta…insomma entriamo.
Non è che il Social Forum con il professorino Agnoletto sia proprio la realtà che ci piace di più, al contrario, il più delle volte nelle assemblee rompevano su ogni cosa volevi fare, lo spettro della violenza vista come tabù e potenzialmente annidata in ogni oggetto li paralizzava.
Per me, per noi sembra volessero solo fare le loro riunioni, noiose per di più, sulla Tobin Tax o su progetti di economia solidale…
Le tute bianche partecipavano al GSF ma nel ruolo del casinista della classe, vigeva il principio del rispetto di ogni componente, ma troppe volte in quei mesi c’è stata la mediazione al ribasso di ogni istanza avesse parvenze radicali per non scatenare distinguo e separazioni.
Ma torniamo in riva alle acque del porto, è qui che mi si imprime un’immagine nella memoria, che sintetizza al meglio come ero prima di Genova.
È quasi notte, con le ultime luci rosa che si spengono dall’orizzonte sul mare, oltre i moli e le strutture del porto, davanti a me il piazzale ribolle, è pieno di gente, ci rendiamo conto di quanta gente c’è, di quanti siamo con una sensazione di energia di forza di allegria di spensieratezza che mi è rimasta dentro così come Manu Chao sul palco con il siciliano in giacca che l’accompagna (beh all’epoca Roy Paci non lo conoscevo così bene…) e Cippo che mi passa una canna per gustarmi ancora meglio la scena. Siamo qua, tutti uniti per cambiare le cose e …
STOP fine del quadro idilliaco.
Su Genova arriva un temporale con nuvole gonfie di pioggia che fanno allagare le tende e la notte allo stadio la si passa a scavare canalette nella terra per non far crollare le strutture.
E il giorno dopo ci sparano addosso.
Il giorno delle azioni dirette contro il vertice comincia con migliaia di persone che cercano di asciugare al timido sole del mattino e al vento del Tirreno tutto quello che la tempesta aveva inzuppato durante la notte. Sul terreno dello stadio è un brulicare di corpi al risveglio che iniziano ad essere avvolti dal nervosismo. In decine camminano scattosi tra le centinaia di tende, timidi funghi colorati, che hanno offerto un umido riparo all’esercito di straccioni.
La nostra tendopoli, perché qua treno dopo treno ormai siamo più di 70 dalla nostra città, è sovrastata da una storica bandiera del Che sui colori biancorossi, ricordo di un tifo ormai lontano, testimonianza di una presenza degli ultras sempre timidi prima a partecipare a manifestazioni, ma che oggi ci sono anche loro.
La partenza è lunga, confusione e organizzazione sono un’unica intrecciata realtà, i gruppi cercano di riunirsi, anzi si riuniscono: chi va davanti? chi ha il materiale? chi è che darà i cambi?
Organizzazione è soprattutto ascoltare la tua voce dentro e i consigli di chi ti è accanto, ma anche guardare al materiale che hai con te, l’esperienza sulle tue spalle e la voglia che ti fa mordere il freno.
Eccoli qua i criteri per decidere dove stare, come metterti, poi la tua decisione si vedrà realizzata o meno, l’importante è essere pronti.
Nel nostro gruppo scegliamo chi porta gli scudi, quelli che li portano prima, nella discesa verso la zona rossa, chi li tiene quando la cosa si farà calda, chi poi dovrà occuparsi di dare dei cambi.
Poi si passa a chi si occupa dei lacrimogeni, guanti maschere estintori secchio acqua malox limone.
Ma non solo di tecnica ci si preoccupa, se siamo una moltitudine è anche perché c’è un botto di gente, di ragazzi e ragazze giovanissime, un sacco alla prima manifestazione…
Bisogna pensare anche a loro, io anche se esco ora dal liceo, qualche anno (non più di due a dire il vero) e certi momenti tesi li ho vissuti, alla fine sono nel coordinamento dei cordoni di dietro assai distanti dagli scudi: cordoni da 15 per tenerci compatti con i più giovani, per tenere compatti noi tutti.
Come al solito sono un po’ indeciso voglio andare davanti ma non è che sia il più preparato, anche a livello fisico. Gli ultras nuovi arrivati infatti hanno il doppio di me di spalle e poi i loro allenamenti domenicali contro gli sbirri sembrano essere spesso più seri di tante manifestazioni con qualche spintone.
Insomma con i compagni ci si organizza e a ruoli spartiti, eccomi prima ai lacrimogeni seguendo Lucio che è bello attrezzato con il carrello con secchio ed estintori. Poi mi chiedono di esser disponibile per un cambio di rincalzo agli scudi se la cosa dura parecchio… non è che mi era chiaro, e a maggior ragione oggi esattamente come avrebbe dovuto funzionare, ma avrei cercato di farlo al meglio.
L’immagine dello stadio Carlini era un moltiplicatore di crocchi di persone che si mettono il casco e si danno le ultime indicazioni, si distribuiscono gli scudi.
Eccoli, grandi lastre di plexiglas con le ruote, alti quasi 2 metri con le catenelle a unirli, luccicano ai raggi del sole.
In realtà la plastica non luccica, sono i nostri occhi ad aggiungere gli effetti speciali per rendere più solide le nostre uniche difese per quel giorno.
In sostanza l’esercito degli straccioni sapeva di andarle a prendere dagli sbirri.
Solo, non sapeva quante…
In tempi in cui il sentimento ecologico del movimento era più elastico, centinaia di bottiglie di plastica vengono artigianalmente legate attorno a braccia e gambe in grottesche imitazioni dell’omino michelin.
Quelli delle Marche, invece, devono aver fatto razzia in qualche campeggio perché hanno decine di tappetini viola e blu che messi a 3 a 3 e con un buco per passarci il collo fanno un’armatura degna della pop art.
I grandi scudi escono, sono la grande attrazione, si dice pure che in tutta Genova non si trovavano più le lastre grosse di plexiglas e son dovuti arrivare da Milano a portarle… davanti loro a cercare un’avanguardia ironica ecco 8 maiali di cartapesta, trainati da 8 romani con vena artistica, ad aprire il corteo che prende forma dallo stadio.
È tutta in discesa la strada verso il centro città, un vialone enorme, in pieno sole, con migliaia di persone che manco vediamo la fine. Una sensazione di energia e forza nel vederci là tutti insieme con una multicolore foresta di caschi (e senza l’uniforme della tuta bianca…tolta per l’occasione, olé!).
Forse perché eravamo in discesa.
Lenti impacciati, la tensione sale mentre scendiamo l’enorme Corso Europa e ci avviamo in via Tolemaide. Per strada iniziamo a vedere del fumo a distanza, incrociamo qualche macchina bruciata.
I cordoni del nostro gruppo si serrano, più per stringerci tra noi perché si percepisce palpabile l’inizio delle ostilità, che per aumentarne l’eventuale efficacia.
Le auto fumano ancora, ma è passato del tempo, non capiamo molto, alcuni dicono al megafono che “non siamo noi a dare fuoco alle auto”.
Noi, non abbiamo armi atte ad offendere, non abbiamo materiali con noi, siamo convinti di usare i nostri corpi, sebbene bardati da vario oggettume, come uniche armi.
Armi spuntate.
In via Tolemaide la strada si stringe, le corsie da 4 si riducono a una via stretta, una carreggiata e poi a sinistra cazzo c’è quella merda di muro in mattoni rossi che ti blocca che ti toglie visuale, spazio, vie di fuga. È alto almeno 6 metri questo muro di merda, non mi è piaciuta da subito ’sta strada proprio per il muro, non erano presagi o chissà che preveggenza, scoprivo Genova in quei giorni e i vicoli del porto mi avevano affascinato, là ogni 50 metri partiva una vietta, qui alla nostra destra solo muro.
È una prima selva, ci stringiamo le bandane, ho il tempo di invidiare gli universitari che hanno avuto la preveggenza di rubare le maschere dei pompieri nella loro facoltà.
Davanti si forma la testuggine di scudi, alle estremità si dispongono quelli individuali, di lato stiamo noi con carrelli e i secchi pronti per i prossimi lacrimogeni, almeno 60 cordoni si serrano.
Dietro ci sono altre 10mila persone che non vedono quasi un cazzo.
Sentono solo il silenzio, l’attesa.
Poi è la pioggia dei lacrimogeni, arrivano di lato, dall’alto, dai tetti, dall’elicottero: da dove cazzo partono? Non lo capiamo, cerchiamo di muoverci veloci, rilanciamo il possibile verso gli sbirri, ma non siamo in primissima linea, per cui meglio allontanarli lateralmente, nasconderli sotto i secchi vuoti o gettarli nei secchi pieni di acqua per spegnerli.
In teoria.
In pratica sbandiamo quasi subito, l’organizzazione con posizioni e mansioni si sfilaccia, arrivo dietro le linee degli scudi, la testuggine ha retto, ma non per molto. I carabinieri han sfondato e ora ci si ritira con gli scudi personali in una nube di fumo che riempie la strada fino al secondo piano dei palazzi.
Ci si ricompatta, dietro c’è stato un pò di parapiglia perché in tanti son scappati e c’era un casino, la situazione si calma un attimo, lacrimogeni continuano ad arrivare, ma: “ci compattiamo qua porco dio, scudi cordoni, diocan avanziamo!”
Riconosco la voce e l’accento, un punto di riferimento col casco in testa e la maglia ricordo di Praga, davanti si riorganizzano, subito dietro anche.
Riusciamo a riavanzare in mezzo ai lacrimogeni, non molliamo cazzo!!!
Qui arriva davanti ai miei occhi un blindato dei carabinieri, lo si assalta, con quello che si ha, che non è molto, i militi scappano con l’aiuto di un prete ben voluto tra i manifestanti che garantisce la loro fuga ma non fa altrettanto – e come potrebbe – per il mezzo che si cerca di ribaltare ma poi si dà alle fiamme. Avanziamo fino a vedere uno spiraglio anche sulla nostra destra, è un viadotto, non una via di fuga praticabile visto che da lì a poco arrivano altri sbirri assatanati.
Quel blindato diventa un’icona nei racconti privati di giorni mesi anni a seguire, uno straccio da sventolare, un punto da rimarcare, perché almeno qualche cosa l’abbiamo fatta, ma quel blindato si era incastrato, era in panne, è stato un colpo di fortuna, la fortuna degli audaci certo, ma non una strategica vittoria.
Rabbia odio forza di chi urla dopo i colpi subiti, non era un monumento eroico al valore delle prime linee, era la resistenza delle unghie spezzate piene di terra e bitume.
Ed in mezzo al fumo del blindato, ecco che arriva la giovane giornalista del giornale locale, lei manco si pone la questione se è fuoco vero o spettacolo pirotecnico, con una konica tascabile sta impalata davanti al mezzo a cercare l’inquadratura, gli urlo di scostarsi che non era un gioco, mi guarda, mi vede, ringrazia e si scosta con aria inebetita, forse non l’avevano avvertita che la società dello spettacolo si mostrava in regime fascista…
Davanti è dura, si è conquistato qualche metro, anzi un buon centinaio, tempo di arrivare a un incrocio, di aprirsi anche sulle vie accanto, provare a capire come avanzare, si riprendono alcuni scudi collettivi strappati ai compagni e abbandonati poi dagli sbirri in ripiegamento.
Si avanza verso un piazzale, verso Brignole, ma non per molto. Poi arrivano.
Blu e Neri, idrante, blindati e tanti tanti di quei fottutissimi lacrimogeni.
Sbaragliano la testuggine 2.0, ci si ritira come si può… è un attacco pesantissimo.
Qui però inizia la resistenza.
Le armi spuntate sono il nostro bene più prezioso, i corpi sono una testimonianza certo, ma massacrati, torturati e uccisi lo sono solo per il potere trionfante che può criminalizzarli o deriderli.
I sassi, dove sono i sassi?
Quei sassi che erano diventati una sorta di nemico delle tute bianche, un quasi tabù durante i cortei organizzati nel recente passato. Se li lanciavi quando non era previsto ti trovavi attaccato al muro, anche per il giustificabile fatto che 4 su 5 beccavi un compagno davanti.
I sassi, dove sono i sassi?
Ora però la politica, il progetto, il consenso, l’essere belli e comunicativi si scontra con la mano armata e assassina dello stato, chi mette fiori nei fucili puntati, a volte cade al suolo con un buco nel petto…
I sassi, dove sono i sassi?
Ecco una pagina nascosta, quasi carbonara della mia storia collettiva di Genova.
Quando un corteo pacifico di corpi imbottiti, bloccato, attaccato, soffocato non accetta solo di scappare e di piegarsi al getto dell’idrante che issato sul camion della polizia sbaraglia le posizioni su via Tolemaide.
Quel fiume di persone era stretto in una morsa tra muri di mattoni di ferrovia e muri di elmetti e tonfa, non poteva invertire la corrente di migliaia di persone venute là apposta, non voleva farlo.
Brecht non c’era lì con noi ma aveva visto giusto: “Diciamo di un fiume quando trascina tutto che è violento, ma non si dice mai nulla della violenza delle rive che lo stringono”.
Quelle rive erano le pistole estratte dai blindati, erano il cielo che diventa nero per gli anfibi che si accalcano attorno al capo di un compagno a terra.
Per fortuna, eccoli un po’ di sassi, granelli di sabbia a fronte delle granate assordanti o di quelle a frammentazione dei carabinieri, ma insieme a qualche cassonetto rovesciato a uso sociale in una barricata contro i blindati, si cerca di rallentare la carica delle divise.
I sassi volano con rabbia, forse un po’ sopita negli ultimi anni, mani ritrovano antichi gesti che sono quelli di chi lotta, ma in tanti, i più giovani forse non capiscono subito come agire, le nuove generazioni erano più avvezze al gommone che al sanpietrino, solo che la pelle si salva imparando a usare tutto quello che serve.
Questa resistenza, rabbiosa e spontanea di centinaia di compagne e compagni che erano nel corteo ed erano minimamente attrezzati per muoversi nel terreno che gli sbirri avevano trasformato in zona di guerra è stata troppe volte negata, nascosta, ridimensionata.
Come se fosse meglio giocare alle vittime.
Come se quelli che spaccavano le vetrine e le auto fossero tutti sbirri e non altri arrabbiati che invece di un simbolo del cerimoniale del potere da violare, cercavano un simbolo del capitale da distruggere.
Non erano propensi al dialogo questi di nero vestiti, e manco gliene fregava granchè degli altri, ma i nemici erano blu, sono loro quelli che servono lo stato, che servono allo stato, che uccidono.
Questi momenti han mostrato che la lotta non è solo simbolica o mediatica, sono sudore, urla contro sogni spezzati, un lavoro di merda e un futuro dello stesso colore.
L’odio non è un sentimento da reprimere, se siamo vivi lo siamo per calpestare le teste di re e potenti, senza chiedere permessi né domandarci se viene bene in televisione.
Quei sassi e quelle barricate hanno detto che noi ai padroni e ai governanti non chiediamo le briciole di una concessione, vogliamo fermare quello che ci stan facendo vivere.
Dalla precarietà delle nostre vite, dalla distruzione dell’ambiente, al massacro di chi si oppone.
Quei sassi ci hanno ricordato che siamo vivi e che vogliamo lottare. Ancora, sempre.
Attorno a via Tolemaide si cerca di resistere con quello che troviamo, cassonetti, qualche ramo, la grande campana del vetro divelta dal suolo ci offre qualche regalo e un parziale nascondiglio dai lacrimogeni altezza testa. Il fumo soffoca il respiro e offusca la vista. Non si capisce un cazzo, gli sbirri arrivano da varie parti, avanti, destra e sinistra.
Nella via del corteo avanzano ormai con i blindati e l’idrante, neanche Davide e la sua fionda potrebbero arrestare il Golia tecnologico dell’antisommossa, le poche auto messe a cercare di ostacolarlo girano come delle palline del flipper mentre ci si ritira alla bell’è meglio.
Luoghi, vie e piazzette. I ricordi si perdono nel fumo dei lacrimogeni in cui siamo immersi ormai da ore. Siamo a quest’incrocio di vie: Caffa, Invrea, corso Torino, piazza Alimonda, focolai di resistenza dietro a fragili barricate, animi determinati contro il massacro degli sbirri, lampi di gioia in un ciottolo andato a segno.
I botti di lacrimogeno esplodono dappertutto, sono nel perimetro degli scontri, vago senza meta precisa, senza un obiettivo chiaro, non so bene cosa fare, non mi aspettavo questo, non ero pronto.
Infatti, gli scontri li attraverso solo, non mi ci immergo, passo da un fronte all’altro, cerco volti amici dietro i fazzoletti calati sul viso, vedo teste che gocciolano sangue e labbra imprecare forte, vedo la “casetta” di un benzinaio offrire il suo contenuto a chi improvvisa una barricata.
Vedo fumo, percepisco confusione, sgomento. Cerco amici, compagni, un riferimento.
Sento botti.
Anche alle 17.27.
Anche più tardi.
Che due ore son trascorse tra assalti respinti e gas tossico lo saprò solo dopo, che vuoi che ne capissi in mezzo al parapiglia.
Solo che chi stava resistendo ci ha salvato a tutti perchè ha bersagliato, ritardato, fermato gli sbirri.
Ventimila persone in un budello porco dio, son da santificare gli scudi piccoli dietro cui lanciar bottiglie senza ottenere un lacrimogeno in faccia.
Iniziamo a risalire, indietro, in cordone, in salita, camminando al contrario con gli occhi fissi sull’orizzonte di fumo attraversato da una viscida macchia blu e dall’idrante che spazza la strada venendoci dietro.
Ho ritrovato alcuni dei miei, ci stringiamo le braccia serratissime, non si parla, non solo perché la saliva è andata a farsi fottere dopo il CS. Solo qualche grido di consiglio “Uniti compatti ci ritiriamo cerchiamo di ricompattarci tutti dai dai” ma anche voci, racconti che circolano.
“Hanno sparato”
“Ci hanno sparato addosso”
“Hanno ucciso”
“Ne hanno uccisi 1, 2, 3!”
Un corteo di 20 mila sognatori colorati scendeva per quella stessa strada quella stessa mattina.
Migliaia di gole soffocate, di occhi lucidi dal gas, dal pianto, dalla paura e dalla rabbia la risalivano quel tardo pomeriggio con un camion e centinaia di sbirri assassini al seguito che continuavano a caricare.
E tra di noi c’era una nuova compagna. E tra di noi è arrivata la morte.
E non era ancora finita.
La ritirata era lunga, lenta, “torniamo tutti al Carlini, cerchiamo di tornare tutti là”, ecco l’obiettivo. Quando torni indietro devi riflettere e farti domande se vuoi di nuovo avanzare. La lucidità non l’avevamo, come potevamo pensare in quel momento? I sorrisi dell’energia collettiva erano stati strappati a manganellate e l’entusiasmo soffocato dai lacrimogeni.
Eravamo disorientati, frastornati, feriti, paralizzati.
E quanta amarezza nel risalire la stessa strada, guardandoti attorno ti ritrovavi nello sguardo turbato di chi ti stava affianco, ti riscoprivi più vecchio e stanco.
Quanto era passato dalla stupida scritta we are winning sulla pensilina del bus?
Cos’era successo? Credo sia importante chiederselo perché un limite del movimento forse è stato quello di aver negato la sconfitta: non puoi vincere sempre, al contrario per superare gli ostacoli ci devi sbattere contro per capire bene come sono fatti. Ci siamo concentrati troppo sull’immagine, quando vinci la gente ti segue, se dici che vinci magari viene uguale. Ma forse non ci crede ancora fino in fondo. A Genova in tanti, ed è stata una ricchezza inestimabile, son venuti perché trascinati dall’energia che respiravamo in quei mesi.
Ma la partita in gioco era ben al di là di una fottuta zona rossa, quella zona rossa non era solo nel centro di Genova in quel luglio assolato, la zona rossa era il dominio capitalista che si era messo il vestito della governance globale e della rendita finanziaria, era sfruttamento, razzismo, guerra.
Violare la zona rossa non era una vittoria, ma una porta da aprire in direzione utopia, lontano da essere un punto d’arrivo, ma una tappa. Ci siamo intestarditi troppo sui confini che ci hanno imposto, abbiamo creduto quasi che fosse quella zona rossa a rappresentare il nostro nemico, non le relazioni sociali che ci imponeva o la diffusione biopolitica del suo potere.
Per questo, una volta che il recinto da simbolico si è trasformato in fronte di guerra non siamo riusciti a pensare un’alternativa, non avevamo possibilità nella guerra aperta, non abbiamo trovato la lucidità per pensare di fare dell’altro, per sottrarci allo scontro frontale e usare la nostra forza in sabotaggio e azioni diffuse per essere sempre diversi da come ci volevano loro, che ci volevano carne da macello.
Ma pensare sotto colpi e gas è difficile, se pensi è a salvarti e a tornare tutti indietro.
Quasi.
I lacrimogeni e i caschi blu ci han spinti in salita sulla collina genovese, verso il Carlini. Non ci lasciano, per kilometri ci inseguono, nessuno spazio per riorganizzarsi, indietro, passo dopo passo verso là dove più ingenui e speranzosi eravam partiti.
Volevamo manifestare, abbiam dovuto lottare, resistere per sopravvivere, non per guadagnare il palcoscenico degli otto grandi ma per non occupare una barella insanguinata.
Allo stadio tutti dentro, la stanchezza arriva come le lacrime per la tensione e la certezza del piombo che ha spezzato una vita.
Assemblea, parole, condivisione di emozioni di dolori e la sensazione d’impotenza.
Pablo di Madrid, il ragazzo delle Monos Blancos dalla risata forte nelle bettole di Lavapiés, sale al microfono e in un italiano con l’accento spagnolo ci parla della nostra Argentina “un compagno di nosotros, Carlos, non è rientrato, è biondo, pensiamo sia lui il ragazzo ucciso, assasinado” ha le lacrime agli occhi Pablo, ma non era quel suo amico che hanno ucciso.
Era semplicemente uno di noi.
Uno di noi, foss’anche punkabestia, com’è arrivato a chiamarlo una bestia (lui sì), poche ore dopo al microfono di una radio, quando l’obiettivo politico era distanziarsi dai violenti.
Carlos, Carlo, con un estintore o con le mani bianche la differenza non c’è, hanno ammazzato un ragazzo, uno di noi.
Hanno sparato sulla nostra spensieratezza, e il piombo ci ha tetanizzato.
L’assemblea di quella sera è stata confusa, lacerante, a tratti assurda, si diceva di tutto, volevamo condividere il dolore, lo sgomento, ma anche far parlare la rabbia e la tenacia.
Dovevamo uscire al più presto dalla gabbia simbolica in cui ci hanno prima rinchiuso e poi massacrato.
E certo non con un applauso alla falsa notizia del vertice annullato che potevamo iniziare a farlo.
Ci abbiam messo anni, ma oggi almeno il gioco buoni e cattivi non funziona più.
Quando le vecchiette della val Susa dicono che anche loro sono black bloc il loro giochino del divide et impera si è rotto.
Ma a Genova ha funzionato, ci hanno fregato.
Quella notte, l’ho passata sveglio a fare la guardia a una grata di metallo dello stadio, con Maia, con altri compagni e compagne, con la paura di un assalto degli sbirri e gli occhi lucidi.
Quella notte a distanza di anni la vedo diversamente, quella notte mi domando il perché non avessi avuto la forza di voler lottare, di restituire un po’ dell’odio che mi avevan fatto salire.
Quella notte ci siamo rinchiusi da soli, fermati nello stadio, con l’ansia.
Cazzo, a me ancora oggi viene tristezza a rivedermi seduto per terra dietro la grata a parlare dicendo: “speriamo non vengano, domani dobbiamo essere tantissimi”.
Perché non ho neanche pensato che dovevamo uscire, dovevamo esserci, dovevamo urlare a tutti quello che ci era successo?
Perché non abbiamo bloccato l’autostrada, come si poteva andare in vacanza con un ragazzo che muore?
Perché noi, dieci mila dei centri sociali, siamo rimasti chiusi in uno stadio con i nostri fantasmi attorno?
Perché eravamo stanchi, feriti. Perché avevamo paura.
Perché ci avevano fatto paura e con il terrore ci governano meglio.
Poi uscire quella sera era pericoloso, uscire quella notte non sapevi se rientravi intero, uscire quella notte non era previsto, uscire quella notte non ne avevi le forze. È vero, è assolutamente vero.
Ma forse non ne avevamo neanche la voglia, il desiderio di rispondere al loro piombo assassino.
E questo io ancora oggi me lo rimprovero, possono fermarmi così?
Non voglio più convincere che sono una vittima della repressione, voglio vivere libero e lottare.
Spero di farlo, spero di non avere ancora troppa paura da restare immobile.
Quando non avremo più nessuna scelta
…allora… verrà …allora verrà la scelta!
Tratto da Death of Anna Karina – Gli errori e di fronte a noi…il nulla (2011)
La mia storia a Genova continua con un risveglio angoscioso, dopo qualche ora di sonno all’alba, prosegue con il corteo del sabato, quando tutte le tv e i giornali urlano a tutti di stare a casa, quando vogliono terrorizzare chi sfida il potere, quando vogliono farci il vuoto attorno.
E invece 300 mila persona arrivano a Genova, o ci restano, come me.
E invece una marea di persone scandiscono ASSASSINI coperti dagli elicotteri a bassa quota che di lì a poco, ancora, inizieranno a far piovere candelotti.
Il corteo viene attaccato, spezzato in due dai cani bavosi non ancora stanchi di picchiare. Piazzale Kennedy diviene un poligono di tiro, le cariche arrivano in spiaggia mentre dei sommozzatori nelle acque del porto dimostrano il delirio dello stato di eccezione.
Siamo migliaia ad arrampicarci sui colli, per scalinate ripide, guidati da genovesi che generosi ci indicano il cammino e ci rifocillano con l’indispensabile, acqua, per lavare i lacrimogeni e per spegnere la sete.
A sera, quando in una stazione Brignole spettrale, aspettiamo i treni speciali per rientrare con il compito di comunicare quello che abbiamo visto anche nelle nostre città, sentiamo per radio della Diaz.
Ascoltiamo impietriti la diretta dello sgombero, ci guardiamo, siamo qualche centinaio, molti distrutti dai due giorni di battaglia, scendiamo però dai binari e ci affacciamo nel piazzale della stazione.
L’atmosfera è irreale, buio, nessuno in strada, una zona morta con il piazzale pieno di almeno venti blindati di polizia, griglie sui vetri e la certezza che erano là per noi.
Eccola la partenza da Genova, l’ennesimo rospo da ingoiare con gli occupanti del treno circondati da sbirri e blindati che ci intimano di andarcene, eccola la partenza, con la radio che racconta la mattanza, con il pensiero ai compagni rimasti in quella maledetta trappola, con la rabbia impotente che si sfoga sugli stipiti degli scompartimenti fino a consumare le nocche.
Ma Genova si sedimenta, la paura si trasforma in determinazione, l’impotenza in resistenza, il dolore in tenacia. Dopo bisogna continuare!
Raccontare quello che è successo, smontare i giornalisti e la criminalizzazione, soprattutto continuare a lottare! Urlare liberi tutt*, a difesa di quelli sui cui vuole reiterarsi la vendetta dello stato, senza divisioni, senza distinguere, rivendicare tutto quello che abbiamo fatto, ribadire che non abbiamo più guance da offrire.
Non siamo vittime innocenti, siamo resistenti determinati e coscienti.
Non ci sono mele marce da condannare, ma un regime da abbattere.
C’è chi resiste e chi uccide. Noi lottiamo, contro di loro.
E lottiamo ancora.
Dopo dieci anni non so se hanno senso le cerimonie di ricordo.
Abbiamo bisogno di andare a sfilare per ricordare che noi siamo la speranza?
Non so che futuro possiamo avere se oggi non resistiamo con determinazione, la crisi vogliamo creargliela noi con le nostre intelligenze e con i nostri desideri di rovesciare il presente.
Supporto Legale recitava così “Noi pensiamo che tutti coloro che erano a Genova dovrebbero gridare: in ogni caso nessun rimorso. Nessun rimorso per le strade occupate dalla rivolta, nessun rimorso per il terrore dei grandi asserragliati nella zona rossa, nessun rimorso per le barricate, per le vetrine spaccate, per le protezioni di gommapiuma, per gli scudi di plexiglas, per i vestiti neri, per le mani bianche, per le danze pink, nessun rimorso per la determinazione con cui abbiamo messo in discussione il potere”[1].
La lotta continua, lo spirito non si ferma, mi piace pensare che in dieci anni abbiamo preso confidenza, e compagne e compagni esperienza, perché, se c’è un posto dove pensare che un decennio è passato è nei boschi della Val Susa.
Dove non esistono più buoni e cattivi e dove la nonviolenza è una parola vuota come il sermone di programma dell’ennesimo populista che vuole imbrigliare il movimento con la politica dei partiti.
Siamo liberi e usiamo la memoria, guardiamo indietro per proseguire, senza ripeterci perché accumuliamo sulla nostra pelle e nella testa quello che abbiamo vissuto, le lotte che facciamo.
Sarà düra ma… aqui no se rinde nadie!
aquiestoy.noblogs.org – luglio, 2011
[1] Testo completo qui: http://www.supportolegale.org/?q=node/1270.
[1] Leggibile qui: www.ecn.org/yabasta.roma/pagine/ag01.html.
[2] Qui: www.wumingfoundation.com/italiano/Giap/giapxgenova.html.