Perché dunque sono sempre le stesse zone che s’infiammano, quali sono le cause? È puramente accidentale? O ci sarà un rapporto con la razza, la classe sociale, la povertà istituzionalizzata e il carattere sinistro della vita quotidiana?
Presi nelle loro ideologie pietrificate, i politici della coalizione (compresi quelli del nuovo partito laburista, che potrebbe benissimo partecipare a un governo di unità nazionale se la recessione prosegue) non possono dirlo, perché i tre partiti [Conservatore, Liberal-democratico e Nuovo Laburista] sono ciascuno responsabile della crisi. Sono loro che hanno creato il guasto.
Privilegiano i ricchi. Fanno sapere che i giudici e i magistrati dovranno dare l’esempio infliggendo pesanti pene di prigione ai rivoltosi armati di pistole ad aria compressa. Non rimettono mai seriamente in discussione il fatto che nessun poliziotto sia mai stato punito nonostante più di mille persone sono morte dal 1990 mentre erano detenute. Qualunque sia il partito o il colore della pelle del parlamentare, recita gli stessi cliché. Sì, lo sappiamo che la violenza nelle vie di Londra è deplorevole. Sì, lo sappiamo che non va bene saccheggiare i negozi. Ma perché queste cose succedono adesso? Perché non sono successe l’anno scorso? Perché le lamentele si accumulano con il tempo, perché quando un giovane cittadino nero di un quartiere sfavorito muore per volontà del sistema [sabato 6 agosto 2011, di 29 anni, è stato ucciso dalla polizia, nel quartiere povero di Tottenham, nel nord di Londra], questo dà il segnale per innescare una controffensiva.
E questo potrebbe ancora aggravarsi se i politici e l’élite del mondo degli affari, sostenuti da una televisione di Stato sottomessa e dalle reti (giornali e TV) di Rupert Murdoch, falliscono nella gestione economica e puniscono i settori poveri e sfavoriti per le politiche governative che loro stessi hanno promosso per più di tre decenni. Non possono eternamente disumanizzare il “nemico” in casa o all’estero, seminare la paura e procedere a detenzioni senza processo.
Se in questo paese ci fosse un reale partito d’opposizione, starebbe rivendicando lo smantellamento della fragile impalcatura del sistema neoliberale prima che crolli e colpisca ancora più persone. Ovunque in Europa, i tratti distintivi che separavano un tempo il centro-sinistra dal centro-destra, i conservatori dai socialdemocratici, sono spariti. L’uniformità delle politiche ufficiali deruba i settori meno privilegiati –altrimenti detta la maggioranza– dell’elettorato.
I giovani neri disoccupati o sottoccupati a Tottenham, a Hackney, a Ensfield e a Brixton sanno molto bene che il sistema è contro di loro. I farfugliamenti dei politici non hanno impatto sulla maggior parte della gente, e ancora meno su chi sta accendendo fuochi per le strade. Gli incendi saranno spenti. Ci sarà probabilmente qualche inchiesta patetica per scoprire perché Mark Duggan è stato abbattuto, sarà espresso rammarico, la polizia spedirà dei fiori per il suo funerale. I manifestanti arrestati saranno puniti, e tutti tireranno un sospiro di sollievo e passeranno ad altro finché si produrrà una nuova esplosione.
Quello spazio da attraversare
Che siano i vecchi testi dei Clash – London’s burning e London calling – gli strumenti più utili per capire quello che sta accadendo a Londra ? Potrebbe sembrare una provocazione ma poi, pensandoci bene, non tanto. Se dovessimo rifarci solo ai commentatori dei media mainstream dovremmo concludere che siamo di fronte a saccheggi e incendi ad opera di fantomatiche gang criminali che hanno approfittato in modo strumentale di un “grave errore” della polizia. Uno schema interpretativo che si ripete stancamente dal 2005 con le ” notti dei fuochi” delle banlieues francesi, passando per la rivolta giovanile e studentesca greca del 2008, per approdare a Londra in questi giorni, solo per citare alcuni esempi. Quel che non si capisce, o si fa finta di non capire, è che pur nelle evidenti diversità queste forme di ribellione hanno dei tratti comuni. Partiamo dalle differenze. Le banlieues francesi sono esplose attaccando direttamente i simboli e i luoghi istituzionali sia che fossero municipi, scuole o biblioteche in quanto visti come espressione della catena del potere statale che aveva nella polizia lo strumento della repressione brutale. La quarta generazione di migranti, nati in Francia e formalmente cittadini francesi, ha mostrato di non riconoscersi nei “valori “ repubblicani francesi e al tempo stesso non ha mai avuto un paese di origine dove eventualmente tornare anche solo con la costruzione di un immaginario. La rivolta greca della fine del 2008 ha avuto i caratteri della contestazione radicale di un sistema economico e della sua rappresentanza politica, con un’evoluzione che si è politicizzata velocemente. I giovani greci hanno misurato sulla propria pelle la distanza tra la loro condizione e un futuro fatto di politiche liberiste e securitarie. Una distanza che è precipitata nel presente dell’omicidio da parte della polizia di Alexandros Grigoropoulos ed è progressivamente aumentata con la distruzione dello stato sociale imposta dall’Unione Europea e dal Fondo Monetario Internazionale.
In una lettera di qualche giorno fa al quotidiano inglese The Guardian un lettore commentando i riots che si stavano diffondendo ad altre città oltre Londra si esprimeva in questi termini: i rivoltosi stanno facendo per le strade quello che i banchieri hanno fatto nel paese. Come dire: ai riots dei banchieri nelle borse mondiali sono succeduti i riots nelle strade inglesi. E’ altresì fuori discussione l’influenza, in quello che sta succedendo nelle città inglesi, delle rivolte arabe e del movimento studentesco dell’inverno scorso. Un’influenza non diretta ed esplicita ma che si dà nei comportamenti, nella radicalità della contrapposizione ai modelli di dominio, nel rifiuto della ricerca di una rappresentanza politica tradizionale.
Ma a Londra c’è dell’altro. A partire dal neologismo razzista, Londonistan, che si è affermato anche nel gergo popolare per definire la città. Londra come l’Afghanistan, tante “tribù”, tante etnie, che vivono ognuna nel propri territori dai confini simbolicamente ben delimitati e definiti. E’ il risultato di una politica, laburista o conservatrice non fa molta differenza, che traeva origine da un concetto di integrazione che si basava sulla “relazione tra le razze”. Il nucleo centrale era rappresentato dalla “britannicità” bianca attorno al quale ruotavano le varie comunità delle “minoranze etniche”. Lo Stato favoriva e finanziava in vario modo le gerarchie delle comunità migranti per esercitare una forma di controllo sui conflitti che esplodevano o potevano esplodere ed accettare un sistema di relazioni sociali e politiche che prevedeva un riconoscimento, sempre provvisorio e condizionato, delle “minoranze etniche”. Questo modello di integrazione differenziale, specificamente inglese ma con sostenitori anche dalle nostre parti, è andato in pezzi. La crisi politica e economica, gli elevati tassi di precarietà e disoccupazione presenti nelle “minoranze etniche” pur con cittadinanza britannica, la messa in discussione – con comportamenti e atteggiamenti sociali e culturali – dell’ “autorevolezza” della comunità da parte delle giovani generazioni hanno scardinato quello che altro non era che una forma di razzismo istituzionale per interposta persona. Le gerarchie e le relazioni interne alle comunità erano intese come strutture disciplinari e di controllo subordinate allo Stato. Da qualche tempo il Governo inglese, anche qui tra Brown e Cameron non ci sono particolari differenze, ha ripreso il monopolio del razzismo istituzionale aggiungendovi una dose massiccia di islamofobia con una legislazione speciale.
“Out of control” titolava un paio di giorni fa l’Indipendent riferendosi ai riots. Avrebbe dovuto titolare: “fuori controllo ormai da qualche anno”. Tuttavia si sbaglierebbe se si pensasse che la rivolta iniziata a Londra sia un fenomeno da catalogare sotto la voce della rabbia cieca e apolitica. Se per politica si intende la costituzione di uno spazio comune conflittuale in cui si impongono quei soggetti che lo “spazio del dominio” non vede, che usano parole che non erano riconosciute come tali, che hanno comportamenti difformi alle regole del mercato delle merci allora qui si collocano i tratti comuni tra Parigi, Atene e Londra. Sono forme di soggettivazione ibride e accidentate che raggiungono velocemente le fasi acute dello scontro sociale e istituzionale per poi rifluire. Ma qui sta la soglia della trasformazione, della produzione politica di comportamenti che non si fanno riassorbire e non delegano la loro rappresentanza. I comportamenti di una nuova classe a venire.
Forse il salto di qualità consiste nel non posizionarsi dal lato dei commentatori, seppur solidali, delle soggettività che aprono gli spazi politici ma frequentare, attraversare e facendosi attraversare da quegli spazi. Il governo inglese probabilmente riuscirà a domare questo incendio intensificando la repressione e le leggi speciali. Un fatto tuttavia appare certo, in qualche modo già prefigurato da Joe Strummer, oggi: “ Londra sta chiamando le città sperdute”.
Summer of ’81
Wu Ming 5
Qualche riflessione per comprendere l’origine di quanto viviamo ora.
Le rivolte inglesi dell’estate del 1981 – Brixton, Toxteth, Handsworth, Leeds – colpirono l’immaginario di molti, qui da noi, specie tra coloro che seguivano il punk. A quei tempi, in quei circoli, la parola “rivolta” era assai più praticata della parola “rivoluzione”. Almeno per quanto riguardava le strade del Regno Unito, le parole si mutavano in fatti.
Il 10 aprile 1981, a Lambeth, un sobborgo di Londra prossimo a Brixton, la polizia fermò un giovane nero, Michael Bailey, mentre fuggiva inseguito da altri “ragazzi di colore”, come si diceva allora. Era stato accoltellato e sanguinava. Si formò una folla che incominciò a lamentare il ritardo nei soccorsi. Michael Bailey venne portato fino a un auto in Railton Road, mentre scoppiavano i primi disordini.
Si diffuse la voce che il ragazzo fosse stato lasciato morire in ospedale. (Un rumour, se versomile, può incitare alla battaglia). Ne originò una rivolta feroce, che si protrasse per due giorni.
Fu una specie di miccia ideale. Le rivolte nelle altre città furono accese da episodi simili. Il 3 luglio Toxteth, Liverpool. Il 9 luglio, Sheffield. Il 10, Handsworth, il sobborgo di Birmingham che aveva già conosciuto episodi simili un anno prima e che esploderà con ancora maggiore violenza nel 1985.
La mano che accese le micce fu quella del governo di Margaret Thatcher, allora all’inizio di una meticolosa, trionfale e ingloriosa guerra alle classi lavoratrici. Su uno scenario di chiara marginalizzazione e in un clima di razzismo montante, la comunità nera (ma non solo quella) si trovò a dover fronteggiare una serie di provvedimenti legislativi che vanno sotto il nome di Sus Laws, che consentivano alla polizia di fermare e perquisire chi volessero sulla base del semplice sospetto. La legge traeva origine dal Vagrancy Act del 1824, che recitava:
Every suspected person or reputed thief, frequenting any river, canal, or navigable stream, dock, or basin, or any quay, wharf, or warehouse near or adjoining thereto, or any street, highway, or avenue leading thereto, or any place of public resort, or any avenue leading thereto, or any street, or any highway or any place adjacent to a street or highway; with intent to commit an arrestable offence, shall be deemed a rogue and vagabond and would be guilty of an offence, and be liable to be imprisoned for up to three months.
Il provvedimento si applicava dunque nel caso che l’accusato presentasse le seguenti caratteristiche:
1. avere un’aria sospetta;
2. prepararsi verosimilmente a commettere un delitto.
Occorrevano due testimoni: di solito i due poliziotti di pattuglia che eseguivano il fermo.
Da subito la Sus law fu un’arma di repressione e controllo sociale, non solo nei confronti delle comunità indoccidentali impoverite dalla recessione, ma anche nei confronti di larghi settori di quello che allora veniva chiamato, da noi, “proletariato urbano giovanile”. Quindi punks, skinheads, hippies, freaks di ogni tipo, eccetera eccetera. Il tutto in un clima di tensione montante tra comunità, e in presenza di una martellante campagna razzista da parte del National Front. Enoch Powell, allora deputato unionista, nel marzo dello stesso anno aveva prefigurato una guerra civile etnica: non era la prima volta che lo faceva. I segnali sembravano, da un punto di vista conservatore, dargli ragione.
Da subito si ebbe la percezione che la Sus law era uno strumento di guerra di classe: ricordo una maglietta dell’epoca che elencava tutte le categorie di persone che potevano essere bersaglio del provvedimento. Era una T-shirt molto popolare, all’epoca, le categorie passibili di sospetto erano in pratica tutte, tranne i borghesi.
Le rivolte dell’estate ’81 e la Sus Law sono passate alla storia attraverso una colonna sonora che comprende Summer of ‘81 dei Violators, One Law for Them dei 4 skins, Let’s Break the law degli Anti-Nowhere league. C’è poi il primo lp degli Steel Pulse, Handsworth Revolution, che risale al 1978 ma che testimonia bene la commistione di strada tra punk e reggae tipica di quegli anni.
Lasciamo le parole finali a Maggie Thatcher. In quegli anni, la disoccupazione in aree come Brixton si attestava attorno al 13%, ma le minoranze etniche la subivano in ragione del 25.4%. Tra i giovani neri arrivava al 55% . Rifiutando di investire nel risanamento dei nuclei urbani problematici, la Thatcher sostenne che “Il denaro non può comprare la fiducia e l’armonia razziale”. Ted Knight, allora a capo del Lambeth Borough Council, sostenne che le forze di polizia si erano comportate come una truppa d’occupazione e che questo aveva provocato le rivolte. “What absolute nonsense and what an appalling remark” rispose la Thatcher “… No one should condone violence. No one should condone the events … They were criminal, criminal.”
Mi accorgo che quanto scritto assomma a una specie di apologo. Il tempo del capitale non passa mai davvero, siamo ormai lontani da quegli anni ma non da quelle strategie repressive, e siamo ancora immersi nella stessa ideologia, nella stessa concezione del potere, nella stessa merda.