Il 15 ottobre romano e la necessità dell’autorganizzazione

Proviamo a offrire degli spunti di riflessione sulla manifestazione del 15 ottobre a Roma. Una data che sicuramente non ha soddisfatto tutte le potenzialità che portava e ha mostrato i limiti nell’innestare quella mobilitazione dal basso che si sta dispiegando a livello mondiale.

Nonostante le divergenze su alcune pratiche di piazza e l’eterogeneità nell’affrontare certe situazioni di pericolo, ci sentiamo di esprimere la nostra totale solidarietà a chi è stato arrestato quel giorno solo per aver reagito alle camionette lanciate contro la folla in piazza San Giovanni.

 

 

Ma il nodo è quello dell’ autodeterminazione

nota di Sinistra Critica

Si possono utilizzare sguardi e criteri diversi per descrivere quello che è accaduto a Roma il 15 ottobre e posizionarsi di fronte agli accadimenti. A noi interessa poco il dibattito sui “violenti” o sul “complotto”, sui “cattivi” a cui si contrappongono i “buoni”. Il nostro sguardo e il nostro punto di vista si colloca decisamente dentro al movimento che vogliamo costruire e si preoccupa delle sue potenzialità, della sua crescita, della sua efficacia e, soprattutto, della sua possibilità di decidere democraticamente. Di autodeterminarsi. Questo è il punto che vogliamo mettere al centro di questa riflessione perché, allo stesso tempo, questa possibilità è la grande sconfitta della giornata del 15 ottobre.

1) Le potenzialità del 15 ottobre sono evidenti dai numeri di una manifestazione in grande parte autorganizzata sia pure dal contributo di molte organizzazioni. Organizzazioni, però, che non sono quella “potenza politica” che c’è stata in altri tempi e quindi il numero di coloro che in vario modo hanno sfilato a Roma – 200mila ci sembra la cifra più credibile – dimostra una forza d’urto che è importante registrare e valorizzare. Il contrasto alle politiche messe in campo dai governi liberisti – di centrosinistra e di centrodestra, poco importa – in questo paese continua a essere importante anche se politicamente si colloca in forme diverse o, forse, non si colloca affatto. C’è una massa critica che resiste che costituisce l’anomalia italiana, il segno di un paese che non si è anestetizzato nonostante 17 anni di berlusconismo e, sottolineiamo, di antiberlusconismo deteriore. Da qui occorre ripartire.

2) Cosa ci facciamo con questa potenzialità, cosa avremmo potuto fare se il 15 ottobre fosse andato diversamente? Come si trasforma la disponibilità a lottare in mobilitazione permanente? Questa domanda è importante porsela subito perché aiuta a dare un giudizio non impressionista sui fatti del 15. Una buona componente della manifestazione, tra cui noi con molta determinazione, aveva proposto di chiudere il corteo con una grande accampata: una forma politica che smentisse la ritualità della sfilata e non seguisse facili avanguardismi. A cosa serviva l’accampata? A compiere un atto simbolico di contrapposizione al potere dominante – sia esso il governo o la Banca d’Italia o anche lo stesso Quirinale – a definire uno spazio pubblico di dibattito e autorganizzazione e, quindi, a predisporre i primi meccanismi per la nascita di un movimento vero: organizzato dal basso, autodeterminato, dotato di un programma avanzato. Tutti questi ingredienti, infatti, oggi non esistono. C’è un umore generale, un’incazzatura diffusa, la disponibilità a venire a Roma ma, poi, nei territori, nei luoghi di lavoro, di studio, nei luoghi del non lavoro, nei luoghi migranti manca ancora la densità specifica e tipica di un movimento di massa. Per noi, il 15 ottobre serviva a far germogliare tutto questo.

3) Serviva anche, quella giornata, a offrire uno spazio d’azione utile a coloro che dovrebbero essere i veri protagonisti di un movimento di massa duraturo e efficace: i soggetti reali, gli operai, gli studenti, i precari, le donne, i migranti, i comitati per i beni comuni e così via. Anche qui, se oggi ci sono segnali importanti in questa direzione, quelle soggettività sono troppo spesso rappresentate solo dalle organizzazioni di riferimento: sindacali, qualche volta sociali, in parte partitiche. I soggetti reali non sono ancora i protagonisti e questa resta una priorità di fase che ci porta, con questo spirito, a diffidare della solita forma “parlamentare” di direzione del movimento con riunioni di intergruppi che, se forse andavano bene dieci anni fa a Genova, oggi non riescono a interpretare la fase. Per la natura diversa, a volta contrapposta, dei soggetti in questione, per alcune coazioni a ripetere indigeste e per una forma che pensa di assemblare il molteplice con una dimensione che non rappresenta più tutto quello che si muove. Il 15 è anche una sconfitta di quella dimensione e questo va tenuto in considerazione.

4) L’azione portata avanti dai settori che hanno animato gli scontri costituisce una proposta politica molto chiara e, anche per questo, attrae una porzione di giovani in gran parte precari che non va banalizzata. Tanti giovani si sono uniti agli scontri spesso solo per esprimere la frustrazione che proviene dalla crisi. Ma, appunto, la proposta politica è in larga parte questa: offrire una sede scenica per dare sfogo alla frustrazione. Inscenare scontri e un conflitto a uso delle telecamere per poi farlo rappresentare da un migliaio di giovani “incazzati” non ci sembra però una proposta in grado di reggere nel tempo se non con imprevedibili, quanto controproducenti, escalation.Escalation che abbiamo già visto e che tra i tanti guasti prodotti hanno comportato l’affossamento dei movimenti di massa.

5) La decisione di forzare la situazione ha contraddetto quelle che ci sembrano le priorità fondamentali: la costruzione di un movimento, la sua crescita ed efficacia, la sua autodeterminazione. Il movimento non è riuscito a nascere sabato in piazza, non avrà maggiore facilità a crescere e soprattutto è stato determinato da soggettività che non rispondono a nessuno.

6) In realtà, quello cui abbiamo assistito è stata la stanca replica di un film troppe volte visto negli ultimi decenni. La nascita di un movimento è scambiata per le forme e il gesto estetico di cui si dota; l’autodeterminazione di massa, paziente e complessa, viene aggirata tramite una scorciatoia praticabile da pochi; viene assolutamente minimizzata la difficoltà a riportare su scala locale, sul posto di lavoro, di studio o quant’altro, la dinamica che si sviluppa a livello centrale; il passaggio democratico che richiede tempo e orizzontalità viene bypassato da una scelta elitaria, avanguardista, verticalizzata e, facciamo notare, fondamentalmente maschile.

7) Per questo pensiamo che quanto avvenuto il 15 ottobre, con gravi responsabilità della poliziaper il modo irresponsabile con cui è intervenuta in piazza San Giovanni, si ritorce contro il movimento e lo spinge all’indietro, tutto sulla difensiva e in balia di quei settori moderati ed elettoralisti – presenti in forze al suo interno e pronti ad approfittare del 15 ottobre – che in questo contesto recuperano forza e centralità.

8) Noi non ci riconosciamo in queste forme ma solo in quelle che vengono espresse dalla maturità e dalla consapevolezza dei soggetti sociali autodeterminati. I mezzi e il fine vanno accordati e l’unico modo per farlo, l’unica “moralità” che si può riconoscere all’azione politica e quella che proviene dalla democrazia del movimento, dalla sua autodeterminazione e quindi dalla sua autorganizzazione.

9) Questo è il punto che vogliamo proporre davvero alla discussione. L’unico modo per uscire da questa impasse e dalla frustrazione che si registra a livello generalizzato. Il movimento deve saper affrontare le proprie scadenze avendo deciso cosa fare nelle piazze e come difenderlo politicamente, socialmente e materialmente. Per fare questo occorrono modalità che in Italia raramente si sono date visto che la grammatica dei movimenti è stata in larga parte monopolizzata dalla svalorizzazione e dal burocratismo della sinistra istituzionale e dal sostituzionismo di forze “antagoniste” che, a quanto pare, continuano a riproporre lo stesso schema già fallimentare.

10) Proponiamo, dunque, di ripartire dall’indignazione dei soggetti reali, dagli studenti, dai lavoratori, dai precari, dai migranti, dalle donne. Ci impegniamo soprattutto nella costruzione di movimenti reali a partire da questi soggetti Solo questa dimensione può fare davvero la differenza.

11) Rilanciamo l’idea dell’accampamento, ovviamente da reinventare, in forme non estemporanee né calate dall’alto ma come espressione delle lotte di soggetti reali.

12) Pensiamo che la lotta contro la crisi e la sua declinazione politica vada condotta rafforzando l’autorganizzazione, il movimento di massa, la sua disponibilità al conflitto sulla base della capacità di dotarsi di una vera piattaforma di lotta che dica che il debito non lo paghiamo e che per farlo proponiamo un’altra agenda: moratoria unilaterale sul debito pubblico, realizzazione di una banca pubblica nazionale, tassazione fortemente progressiva di rendite e patrimoni, salario minimo, reddito sociale per giovani e precari, riduzione dell’orario di lavoro, riduzione drastica delle spese militari, difesa dei beni comuni contro grandi opere come la Tav, abolizione del legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro per i migranti, estensione della democrazia diretta.

13) Siamo scesi in piazza al grido di “a casa non si torna”. Questo slogan, dopo il 15 ottobre, è ancora più attuale.

 

 

Nelle nostre intenzioni, la giornata del 15 ottobre doveva essere un grande momento di avvio (ripetiamo, avvio) di un processo di mobilitazione collettiva, permanente, che nascesse dal basso, dalla libera condivisione e dall’autodeterminazione di ogni singolo e singola.Una riappropriazione collettiva e stabile dello spazio pubblico sempre più urgente visto il precipitare della crisi economica e sociale, il carattere epocale e cruciale di questi giorni, di queste settimane, di questi mesi. Un processo inedito di mobilitazioni permanenti in corso in molti paesi, dagli Usa al Portogallo e alla Spagna ma che in Italia non è stato ancora possibile innescare.
Le notizie sul 15 ottobre dal mondo fanno crescere in noi la convinzione che questo processo si sarebbe potuto innescare anche in Italia proprio in quella giornata e invece così non è stato.
L’irriducibile complessità della giornata del 15 ottobre ci obbliga a riflessioni approfondite e pure a mantenere la calma, il sangue freddo, a reprimere sul nascere ogni, opposta, ma simmetrica, reazione emotiva di fronte a quello che è successo sabato, ai commenti di molti, così come all’utilizzo strumentale che di quella giornata si sta facendo da più parti.
A Roma hanno manifestato più persone che in qualsiasi altra capitale europea, questo è il dato che per noi più di tutti sintetizza l’occasione perduta. Sì perché alle nove o alle dieci di sabato sera eravamo tutti e tutte a casa e per questo ci domandiamo: su cosa si misura la radicalità di una pratica?
Noi siamo convinti che si misuri sulla capacità di raggiungere un obiettivo politico, di comunicarlo e farlo percepire come praticabile a livello di massa. Quasi un anno fa, il 14 dicembre, scontrarsi con chi difendeva un despota e un palazzo corrotto era un obiettivo politico che in tanti hanno sentito proprio. Nessuno ha avuto la sensazione di essere stato sovradeterminato da pochi manifestanti quel giorno, perché era chiaro a tutti da dove veniva e dove voleva arrivare quella rabbia. Sabato questo non è successo. Siamo scesi in piazza con le nostre tende, per rimanerci, per occupare una piazza e aprire uno spazio pubblico di mobilitazione permanente. Un bisogno che abbiamo ritrovato nei volti delle centinaia di persone che abbiamo incontrato sabato con le tende in spalla.

La piazza San Giovanni che avevano in mente una parte degli organizzatori non era quello che secondo noi serviva, non superava l’inutile ritualità, non avrebbe messo in campo elementi realmente utili alla costruzione del movimento necessario. Allo stesso modo però, non è stato utile nemmeno quanto accaduto da via Cavour a via Merulana, quando azioni in classico stile minoritario hanno cambiato il volto di un’intera manifestazione. Per questo abbiamo proposto altro, quell’altro che si sta dando ovunque tranne che in Italia. Una proposta di mobilitazione permanente che ci appare la più radicale, perché inedita, perché permanente, perché riproducibile, perché democratica!

Chiaramente è differente il nostro giudizio su quanto accaduto a Piazza San Giovanni, dove migliaia di persone, soprattutto giovani, hanno resistito e si sono opposti alle cariche scellerate e criminali delle forze dell’ordine, che non hanno esitato a caricare con mezzi blindati ed idranti un’intera piazza.

Ovviamente dal giorno dopo è subito partito il massacro mediatico che porta inevitabilmente alla divisione fra buoni e cattivi. Il dividi et impera, insomma, era annunciato!
I giornali chiedono condanne e denunce pubbliche dei violenti. Una denuncia pubblica la vogliamo fare: polizia, carabinieri e finanza hanno tenuto un comportamento criminale, con le cariche  e i caroselli di blindati su una piazza composita ed eterogenea, dimostrando la volontà di colpire indiscriminatamente l’intero movimento.

Per questi motivi non abbiamo dubbi nell’esprimere la nostra piena solidarietà a chi da giorni sta subendo irruzioni e perquisizioni in casa, a chi viene sbattuto in prima pagina e consegnato al massacro mediatico, a chi è stato arrestato e subirà la violenza di un sistema sempre più repressivo.

Ci opporremo con tutte le nostre forze alle proposte di Maroni su nuove leggi speciali contro le manifestazioni e contro chi manifesta. Come al solito si vuole ridurre un problema sociale, frutto della crisi economica e della crisi della rappresentanza politica, ad un problema di ordine pubblico. Come al solito la ricetta parla di repressione e di limitazione degli spazi democratici e di dissenso.

Da oggi vogliamo chiudere il capitolo 15 ottobre e guardare avanti. Vogliamo ripartire dalle centinaia di migliaia di persone scese in piazza e che hanno dimostrato che in Italia è presente una larghissima opposizione sociale.
Questo movimento ha bisogno di potersi incontrare, di discutere liberamente, di condividere forme e contenuti. Questo movimento ha bisogno di poter sedimentare lentamente teorie e pratiche nuove e non di ripeterne di precostituite.
Questo movimento deve legittimarsi e non imporsi. Deve riuscire a catalizzare la rabbia e l’indignazione sociale in un percorso condiviso, ampio e partecipato, in un soggetto che sappia contrastare, contestare e sconfiggere ogni giorno le politiche capitaliste e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Questo movimento va dunque costruito.

Ripartiremo dalle nostre facoltà, dai luoghi di studio e di lavoro. Ripartiremo dalle alleanze sociali che in questi anni hanno visto scendere in piazza gli studenti al fianco dei lavoratori, dei movimenti per i beni comuni, dei migranti, delle donne, dei precari.

Siamo scesi in piazza gridando “Noi il debito non lo paghiamo”. Vogliamo trasformare questo slogan in realtà e far pagare la crisi a chi l’ha provocata!

AteneinRivolta – Coordinamento Nazionale dei Collettivi

Intervista a Wu Ming 1 sul 15 ottobre

 

[Su «Il Manifesto» di oggi, a firma Roberto Ciccarelli, compare quest’intervista a Wu Ming 1. Il titolo è «Wu Ming, autocritica in movimento». Nel sommario, il dibattito su Giap è definito «il più franco e orizzontale sul 15 ottobre».]


«Bisogna raccogliere tutte le informazioni possibili prima di decidere che un suono è rumore». Con questa citazione di Tom Waits, Wu Ming 1, membro del collettivo degli autori di Q (come Luther Blissett), 54Altai, è intervenuto a metà della fluviale discussione sulla manifestazione del 15 ottobre avvenuta sul blog Giap. Nei 467 post prodotti in tre giorni, di suoni se ne sono registrati parecchi e anche il “rumore” è stato meno fastidioso degli inviti alla delazione di massa, o alla ricostruzione dei fatti in base ai rapporti dell’intelligence registrati nell’ultima settimana. Nella discussione pubblica più lunga e articolata avvenuta in rete, molti partecipanti hanno dichiarato senza remore di aver preso parte agli scontri in Piazza San Giovanni, pur riconoscendo che molte cose non hanno funzionato e la manifestazione ha avuto un esito politicamente disastroso. E così anche chi ha condannato con decisione gli scontri ha riconosciuto la difficoltà di leggere i fatti distinguendo tra «violenti» e «non violenti». Finita la lettura, un elemento sembra emergere con chiarezza: la convinzione che la divisione tra la “massa” e “pochi facinorosi” non regge più, così come è a dir poco inadeguato dirsi soddisfatti per aver fatto fallire una manifestazione.
Più che un’auto-narrazione, o il tentativo di individuare una mediazione impossibile, la discussione su Giap può essere considerata lo strumento per ridefinire un campo della riflessione politica che oggi non trova spazio nei movimenti, nella sinistra o sui media mainstream. «Curioso che un blog di scrittori sia stato eletto a luogo di dibattito, anche lacerante, sulla débâcle del 15 – conferma Wu Ming 1 – Forse ha supplito a una carenza di spazi senza bandiere, o forse è solo un luogo dove si riesce a discutere, perché bonificato da troll e provocatori. Noi siamo intervenuti poco. Avevamo seguito l’evento da Bologna, entrando e uscendo dal reparto di cardiologia dov’era ricoverato un nostro compagno. Un po’ per questo, un po’ per non sembrare grilli parlanti, abbiamo deciso di ascoltare, di seguire il divenire senza tentare una sintesi».

Dieci anni fa, dopo Genova, avete proceduto ad un’auto-critica. In cosa consisteva e perché a tuo avviso è ancora valida dopo il 15 ottobre?

«Nel 2001 avviammo l’autocritica, ma troppo timidamente. Subito dopo Genova scrivemmo cose molto ingenue. Il movimento non sembrava vinto, era come quei personaggi di cartoon che, superato un dirupo, per qualche istante corrono sospesi a mezz’aria. Dopo il G8, altre Grandi Scadenze alimentarono false speranze, ma agli inizi del 2003 i social forum erano morti, c’erano scazzi feroci, la depre dilagava. L’autocritica prese forma allora, ma siamo riusciti a esprimerla solo nel 2009, nel testo Spettri di Müntzer all’alba. Facemmo molti sbagli nel preparare la Grande Scadenza. Non fummo i soli, ma noi parliamo delle nostre responsabilità. Facendo gli apprendisti stregoni col mito politico e metafore ‘tossiche’ come l’Assedio al Potere, favorimmo la reductio ad unum, l’idea di andare tutti a Genova anziché restare molteplici ed evitare la trappola. Rispetto a Genova l’autocritica è stata tardiva, e rispetto a oggi era troppo in anticipo. Il risultato è che non è servita a granché, ci siamo solo lavacchiati la coscienza.»

La metafora dell’assedio alla zona rossa ha perso la sua forza evocativa e politica…

«Alla buon’ora. Violare le zone rosse era pura autoillusione, là dentro non c’era niente, in quei summit non si decideva nulla. Il potere capitalistico non sta chiuso in un fortilizio: è nel rapporto di produzione, nello sfruttamento quotidiano, nella valorizzazione finanziaria, nelle articolazioni sul territorio.Occupy Wall Street è già un passo avanti. Come dice McKenzie Wark, lì si tratta di occupare un’astrazione. Senza voler fare l’apologia di quel percorso, che conosce ora le prime crisi (speriamo di crescita), c’è un’intuizione più precisa su come funziona il potere. Discorso simile per il nostrano tentativo di “occupare Banca d’Italia”: non si voleva letteralmente occupare la banca, ma spostare l’attenzione dal teatrino politicante ai diktat del capitale. Insomma, niente banalità del tipo “Assediamo i palazzi del potere”. Detto ciò, non è impossibile usare bene un’immagine d’assedio, pensiamo ai NoTav quando parlano di ‘assediare il cantiere’. Il rovesciamento ironico è palese: nei piani di chi vuole imporre la TAV, doveva essere il cantiere ad assediare il territorio, invece è il territorio ad assediare il cantiere.»

Ora che la teologia della Grande Scadenza Nazionale è finita, esistono soluzioni alternative per produrre un conflitto incisivo e coniugare le istanze locali con l’idea di una coalizione sociale determinata ?

«Occupy Everything può essere considerato un buon precetto. L’Onda universitaria lo mise in pratica un anno fa, ai tempi del “Blocchiamo tutto”: le autostrade, il Colosseo, la Mole… Il movimento sembrava ubiquo, era pieno d’energia, poi la scadenza del 14 dicembre dissipò in un giorno tutta la forza accumulata. Crediamo sia sempre meglio colpire in più posti che trovarsi in un posto solo, però stiamo attenti: non è solo un problema di forme, di tattiche. Se non è chiaro chi pratica la piazza e perché, non c’è proposta sulle forme che tenga. Se i movimenti volano col pilota automatico e precipitano sempre nello stesso punto, è chiaro che il problema è a monte, riguarda la devastazione degli ultimi decenni, la poca chiarezza sull’attuale composizione di classe e, aggiungo, la vaghezza di proposte e parole d’ordine, dal “comune” all’evergreen “reddito di cittadinanza”.»