In queste due settimane di isolamento e limitazioni La Boje! non è rimasta a guardare.
Oltre alle consuete riunioni di coordinamento telematiche abbiamo infatti partecipato alle innumerevoli assemblee della rete per il #RedditodiQuarantena, cui stanno partecipando lavoratrici e lavoratori e soggettività politiche da tutta Italia.
Le prime conferenze online hanno messo in collegamento soprattutto le figure più precarie del panorama lavorativo italiano, di cui molte/i di noi fanno parte: educatori sociali e lavoratori dello spettacolo, costretti a casa da giorni senza retribuzione.
Fin da subito però ci siamo resi conto della condizione di pericolo vissuta da tanti attivisti e conoscenti impiegati nelle aziende del territorio: si tratta di coloro che sono tuttora esposti molto più di altri al contagio, e non perché impegnati in prima linea nel contrastarlo (a medici, infermieri e operatori sanitari va la nostra quasi scontata e totale solidarietà), ma perché costretti a continuare a recarsi al lavoro nelle fabbriche, negli uffici, nei magazzini, spesso per continuare attività produttive non essenziali, in contrasto con tutte le raccomandazioni di esperti e medici oltre che con il buonsenso. Ovviamente non è una scelta dei singoli lavoratori, bensì una precisa e incosciente strategia delle organizzazioni padronali.
Anche in quei casi in cui si tratta di attività produttive necessarie (ad esempio legate al comparto alimentare), le precauzioni prese a tutela della salute dei lavoratori si rivelano spesso deficitarie quando non del tutto assenti.
Abbiamo raccolto le descrizioni di alcune situazioni di cui ci hanno informato, ma vogliamo continuare a raccontarle: chiediamo a tutt* coloro che si ritrovano (o si sono ritrovati) in un’esperienza simile di raccontarci in forma anonima ciò che stanno vivendo sul posto di lavoro o a casa. Condividere testimonianze e conoscenze è un passaggio fondamentale per rendersi conto che non siamo soli e non siamo sole: questa crisi può diventare uno strumento del Potere per dividerci ulteriormente, oppure un mezzo per unirci contro la mancanza di diritti e per rivendicare forme di #reddito universali.
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STORIE DI SFRUTTAMENTO NELL’EPIDEMIA a #Mantova
Al magazzino generale delle Poste di Mantova già il 2 marzo c’era un lavoratore positivo al COVID-19, ma i colleghi sono stati lasciati a casa solo il 12 marzo. Il lunedì successivo sono stati richiamati a lavoro dopo la sanificazione dell’impianto, nonostante non fossero passate due settimane di quarantena previste e nessuno avesse previsto azioni incisive per evitare il contagio, come ad esempio la sanificazione quotidiana dei messi per distribuire pacchi e lettere per esempio.
Allo stabilimento di Valdaro della Smurfit, multinazionale con 46mila dipendenti e un patrimonio di 9mila milioni di €, sono stati distribuiti guanti e mascherine solo mercoledì della scorsa settimana, peraltro dopo aver sostenuto che tali dispositivi sarebbero stati inutili. Il CEO Anthony Smurfit ha ringraziato attraverso un video i dipendenti, quasi fossero eroi, per permettere all’azienda di rimanere competitiva nel mercato del packaging anche in questo momento difficile per tutti.
Nella stessa area industriale, in diversi siti che si occupano di logistica non ci sono ancora le mascherine. Per non fare notare l’assenza, i responsabili delle cooperative che hanno in gestione gli appalti chiedono a chi le ha di toglierle. C’è chi non obbedisce e c’è chi va a casa, pur con la consapevolezza che per questo motivo potrebbe non vedersi rinnovato il contratto. Negli ultimi giorni invece sono stati distribuiti dei bavagli di un tessuto simile ai panni in microfibra, che non hanno alcun effetto in termini di riduzione del rischio di contagio.
All’Iveco di Suzzara fino a mercoledì si è continuato a lavorare in catena di montaggio. Lunedì scorso, con l’Italia ormai divenuta zona rossa, mancavano ancora guanti e mascherine in una fabbrica del gruppo FCA. I lavoratori interinali arrivano da Brescia allo stabilimento ogni mattina in pullman affollati di operai. Solo due giorni fa l’azienda ha dovuto chiudere poichè alcune di queste persone sono risultate positive al COVID-19.
Alle Raccorderie Metalliche di Campitello, fabbrica di 300 dipendenti, di fermare la produzione non se ne parla e le mascherine sono arrivate in palese ritardo: in molti fino ad una settimana fa lavoravano senza alcun dispositivo di protezione. All’inizio della settimana gli operai hanno fatto due giorni di sciopero, vendono entrare qualche collega, ricattato per la condizione contrattuale precaria o attirato dal bonus di 100€ reso operativo dal bonus Cura Italia per i lavoratori che non interromperanno il lavoro durante il mese di marzo. Nonostante proprio le fabbriche rimaste attive sembrano essere uno dei vettori del virus nel nord Italia. Dopo la protesta la ditta del patron Ceccardi ha consegnato mercoledì delle mascherine simili a carta velina ammassate negli scatoloni dove ripongono gli operai ripongono i cartellini.
In diversi caseifici che producono Grana Padano, i lavoratori hanno potuto usufruire da subito dei DPI, già disponibili viste le caratteristiche produttive ad alta igienizzazione del comparto, ma poi si trovano a cambiarsi insieme negli spogliatoi ad inizio e fine turno.
Questi sono gli effetti dell’accordo tra CGIL, CISL e UIL e Confindustria che “obbligava” le associazioni padronali a vigilare sulla presenza di dispositivi di protezione e sul varo di norme anticontagio per ciascuna azienda, rimandando così la contrattazione per la salute sul posto di lavoro ad ogni singola fabbrica ed indebolendo il già limitato potere decisionale dei lavoaratori.
In questi 10 giorni, però, più di qualche lavoratore nelle fabbriche mantovane ha provato ad alzare la voce. “Mi sono reso conto per la prima volta che della nostra salute non gliene frega davvero niente” ci raccontava un lavoratore di una azienda multinazionale di macchine etichettatrici dell’alto mantovano.
In diverse aziende ci sono stati scioperi di poche ore, alcuni più organizzati e con la presenza di rappresentanti della FIOM, altri totalmente spontanei con diverse frizioni con i rappresentanti sindacali.
La realtà però ci consegna anche un contesto in cui da un lato abbiamo datori di lavoro che obbligano i dipendenti a ferie forzate (in quarantena) e dall’altro in tanti, forse troppi, per quanto disponibili ad un conflitto per i propri diritti, hanno ritenuto più sicuro andare in malattia nel momento in cui si sentivano soli a lottare, vista l’incapacità di CGIL, CISL e UIL di convocare uno sciopero generale ad oltranza che desse forza ed unità ad un mondo del lavoro che anche a questo giro rischia di pagare la crisi.