La formazione deve tornare ad essere luogo di critica e autodeterminazione, al fianco delle mobilitazioni studentesche di domani, condividiamo gli spunti critici elaborati dal collettivo de LaBoje!.
Vent’anni fa gli studenti e le studentesse delle scuole superiori incominciarono a mettere al centro delle loro proteste il progetto di “scuola-azienda” sostenuto dalla Ministra dell’Istruzione Moratti e da buona parte della politica istituzionale. I cortei studenteschi si aprivano con carrelli della spesa con dentro finti pacchi della spesa con sopra non le marche dei prodotti, ma le materie scolastiche. In un paese in cui la scuola rappresentava già un debole canale di mobilità sociale, basata su una struttura classista ereditata dal fascismo (la riforma Gentile divise i percorsi di studio idealmente per lavoratori, impiegati e dirigenti) e tante disuguaglianze tra nord e sud, tra centro e periferia, la classe dirigente incominciava a parlare di razionalizzazione, di impresa nella formazione e di una scuola utile per l’industria e i mercati. Si iniziano così a misurare le materie con i crediti, poco dopo si afferma che i professionali e i tecnici possono fare a meno di materie come italiano o storia, contemporaneamente si comincia a fare entrare gli interessi privati negli istituti chiedendo consulenze sui programmi e rapporti di tirocinio formativo. Si faceva spazio la retorica contro il ’68, contro l’idea di una scuola per tutte e tutti che fosse uno spazio di crescita non solo formativa, ma anche sociale e culturale.
Da quel momento i tagli alla scuola e all’università sono continuamente aumentati: nel triennio 2009-2011 con la riforma Gelmini l’istruzione pubblica ha subito tagli per 8 miliardi che hanno deteriorato irreparabilmente la qualità dell’istruzione. Un disinvestimento nella scuola i cui danni sono visibili ancora ora come il taglio del tempo pieno alla scuola primaria e l’affossamento della scuola professionale; tutte conseguenze che hanno aggravato, invece che colmarle, le diseguaglianze tra studenti.
Nelle scuole superiori a poco a poco sono scomparsi i corsi di teatro, musica e per il recupero delle materie insufficienti, sono aumentate le rigidità per il recupero dei debiti e sono stati introdotti test valutativi a crocette come gli Invalsi. Non si ammettevano le disuguaglianze di fondo, anzi le si andava a rafforzare aumentando la distanza tra licei e istituti professionali o peggio Iefp. Non si prevedevano strumenti per l’uguaglianza nell’accesso al diritto allo studio, ma si maneggiava come una mannaia il falso concetto di “meritocrazia”, in cui il merito era il vantaggio economico-culturale di essere nati nelle famiglie “giuste”.
L’ultimo passaggio è stato quello della “Buona scuola” di Renzi che ha esteso il periodo di tirocinio dei centri di formazione professionale (fino a 500 ore su 990 al terzo anno) e ha reso obbligatoria l’alternanza scuola-lavoro, ora chiamata PCTO, in ogni scuola. Se nei primi anni ’70 le lotte operaie avevano ottenuto le 150 ore per far tornare a scuola (a spese dell’azienda) a prendere la qualifica i lavoratori che ne erano sprovvisti, oggi si investono risorse pubbliche per mandare gratis in imprese private studenti che dovrebbero stare a scuola. I centri di formazione professionale, invece di ricevere la giusta considerazione come enti utili a formare una cittadini e lavoratori qualificati, consapevoli dei propri diritti e aggiornati sui settori manifatturieri nei quali andranno a operare, sono diventati sempre di più un ghetto formativo: per uno studente degli Iefp vengono spesi dai 4mila ai 7500 euro all’anno, per uno di una scuola statale 11mila.
Altri problemi di questi enti di formazione sono i docenti precari a partita iva, i deficit di strumenti didattici nonostante la forte concentrazione di bisogni educativi speciali, l’aumento delle valutazioni e delle ore di tirocinio in azienda a fronte di tempi sempre più ristretti per il tutoraggio che accompagna gli allievi in queste esperienze.
E’ in questo quadro che venerdì scorso, durante l’ultimo giorno di tirocinio, è avvenuta la morte di Lorenzo Parelli, studente di un ente di formazione professionale di Udine colpito alla testa da con una trave d’acciaio. Non è il primo incidente che coinvolge uno studente in tirocinio, ma il più grave degli ultimi anni e come vediamo non è un caso, ma ha dei precisi responsabili.
Gli stessi che ci danno dei bamboccioni, che ci mandano a morire per le “soft-skills” quando sanno benissimo che l’unico scopo dell’alternanza non è quello di avere una forza lavoro piĂą capace e inventiva, ma abituarci a una “ginnastica dell’obbedienza” e imparare a lavorare gratis senza diritti e tutele.L’alternanza scuola-lavoro non migliora l’incontro tra domanda e offerta del mondo del lavoro bensì produce sfruttamento. Gli stessi dati del giornale di Confindustria dimostrano che il problema della scuola è rappresentato principalmente dalla bassa spesa per l’istruzione dell’Italia, che non si è mai ripresa dai tagli subiti in passato. Per essere davvero uno spazio di formazione e crescita culturale e non un luogo in cui si formano i futuri lavoratori e lavoratrici precari di domani, la scuola deve essere ripensata in quest’ottica e finanziata adeguatamente.
“Non è un caso che, nei Paesi industrializzati, i Neet sono passati dal 14,4 % del 2019 al 16,1 % del 2020, mentre da noi, nello stesso arco di tempo, sono cresciuti dal 24,2 % al 25,5 per cento. Tant’è che anche l’apparente buona notizia, per l’Italia, del calo di un punto del tasso di disoccupazione (20,3%) per gli under 25 senza diploma – mentre negli altri è salita di due punti (15,1%) – non lo è già più perché si spiega con un incremento degli inattivi.”