Di queste manifestazioni, 259 vengono classificate come cortei cittadini
(23,6 al giorno), 22 come fiaccolate (cioè cortei notturni: 2 al giorno),
177 come presidii (assemblee all’aperto: 15,3 al giorno) e 20 come sit-in
(1,8 al giorno). Queste cifre bastano a farci capire che tra il 2002 e il
2003 è successo qualcosa di importante nel profondo della società. Il
pacifismo è diventato un soggetto forte sul terreno dell’organizzazione di
massa. Come non era mai stato. Ha conquistato una forza autonoma da partiti
e sindacati. E se fino a ieri il pacifismo era una delle categorie della
politica, adesso diventa una cosa diversa: una alternativa alla politica
ufficiale. Non accetta più di essere usato dalla politica come uno dei suoi
aspetti (o strumenti, o valori, o pretesti, o temi, o limiti: a seconda dell
‘importanza che ciascuno vuole dargli), ma invece si presenta come
interlocutore della politica e anche del Palazzo. Rifiuta la subalternità,
pretende parità di condizione, parità di dignità, parità di diritti. È un
bel problema per la politica. Deve reinventare se stessa se vuole dialogare
col pacifismo. È un bel problema soprattutto per un motivo: gran parte della
politica – praticamente tutto il Palazzo – ignora questa novità e intende
continuare ad ignorarla. Se non cambierà idea sarà inevitabile uno scontro
tra politica e pacifismo. Uno scontro feroce. Altrimenti è possibile pensare
a una integrazione, e quindi a un pacifismo che superi definitivamente la
sua dimensione idealista e diventi forza di governo, e a una politica che si
contamini e si faccia condizionare dal pacifismo. Però c’è un solo modo per
farsi contaminare dal pacifismo: diventare pacifisti. È un passaggio
obbligato. Per almeno il 90-95 per cento del Parlamento italiano questa
sarebbe una svolta storica e un nuovo inizio. Sarebbe una svolta per tutto
il sistema democratico occidentale, e sarebbe l’inizio della sua Riforma. È
l’unico punto di partenza possibile per la riforma del sistema: il
pacifismo. Cioè la decisione di sostituire al principio di «forza», che oggi
è alla base della civiltà, il principio di «diritto intergale». Le cifre che
abbiamo citato all’inizio dell’articolo sono prese da un libro pubblicato in
questi giorni da Asterios editore (Trieste) che si chiama Annuario della
pace-Italia (giugno 2002-maggio 2003). È stato edito dalla «Fondazione
Venezia per la pace» e curato da Luca Kocci (372 pagine, 25 euro). È quest’
anno alla sua terza edizione, così come è giunto alla terza edizione il
salone del libro di pace. Tutte e due le iniziative sono organizzate dall’
«Associazione Venezia». Alla stesura di questo libro hanno partecipato una
quarantina di autori (studiosi, giuristi, giornalisti, professori
universitari, sacerdoti, militanti pacifisti). È diviso in varie sezioni.
Nella prima sezione si fa la cronaca di un anno di pacifismo. Nella seconda
si fa un po’ di geografia, e cioè si raccontano le grandi crisi in corso in
ogni parte del mondo. Poi c’è una terza sezione, molto ricca, che affronta i
grandi temi del pacifismo, dal punto di vista dei principi, del diritto,
della religione, della politica, dell’informazione.
Una quarta sezione è dedicata all’analisi di due documenti
importanti e di segno opposto: l’enciclica «pacem in terris» di Giovanni XXIII
(aprile 1963), cioè il testo fondativo del pacifismo moderno; e il documento
strategico di politica internazionale di George W. Bush (settembre 2002),
cioè il testo fondativo delle teoria della guerra preventiva. La quinta
sezione è riservata allo sviluppo di alcune questioni teoretiche (e anche
letterarie) legate al pacifismo, e poi c’è un ultimo pezzo di libro che
fornisce informazioni utili sulle organizzazioni, i siti, i giornali, le
riviste dell’arcipelago pacifista.
È un libro molto interessante e assai ben curato dal quale emergono
tre dati essenziali. Il primo dato riguarda lo stato di cose attuale. E
cioè la decisione del cuore americano dell’impero di avviare l’unificazione
forzata delle province. È la dottrina Bush: un mondo unico, disegnato dal
liberismo americano, con un solo modello politico, un solo modello
economico, una cultura standardizzata, e una struttura militare in grado
di controllare tutto. La dottrina Bush viene da lontano e non riguarda solo
le correnti reazionarie dell’America. È figlia della dottrina di Harry Truman
(che nel marzo del ’47, con uno storico e famosissimo discorso, teorizzò
il diritto dell’America ad essere il gendarme armato del sistema democratico-
liberale in qualunque luogo del mondo). Truman era un democratico. E la
dottrina Bush trova la sua premessa nella scelta di Clinton di fare guerra
alla Jugoslavia, e di affermare l’idea che la guerra è uno strumento
essenziale della politica e della costruzione di un ordine mondiale. Il
risultato di tutto questo è stato quello che Raniero La Valle chiama il
«liberismo armato», cioè la condizione odierna del mondo.
Il secondo dato che emerge dal libro è la fine del diritto
internazionale. Il diritto proibiva la guerra e basava questa proibizione
sia su convincimenti ideali (la «Pacem in terris» è la massima espressione
di questi convincimenti) sia su valutazioni militari e quindi sull’
equilibrio delle forze. La caduta del comunismo ha interrotto l’equilibrio
delle forze e la conseguenza è stato lo sgretolarsi dei convincimenti
ideali. Oggi la vittima del liberismo armato non è solo l’Onu (che in
fondo è una istituzione recente) ma è il concetto stesso di diritto
internazionale. Il diritto internazionale viene negato dalle classi
dirigenti occidentali e sostituito intermante dal concetto di forza
militare. Non era così dalla pace di Westfalia (metà del 600).
Il terzo dato è la crescita del pacifismo. Il pacifismo nei decenni
passati (e praticamente in tutto il 900) non era stato nonviolento se non
in alcune sue componenti minoritarie. Oggi la maggioranza del movimento è
nonviolenta. Cioè sceglie una strada del tutto nuova, che le
organizzazioni politiche di massa non hanno mai sperimentato. Questa è la
originalità che il mondo politico ufficiale non vuole comprendere. La
scelta nonviolenta Cioè sceglie una strada del tutto nuova, che le
organizzazioni
politiche di massa non hanno mai sperimentato. Questa è la originalità che
il mondo politico ufficiale non vuole comprendere. La scelta nonviolenta
ha due conseguenze molto serie. La prima è la critica del potere in quanto
potere. Cioè l’idea che non esiste un potere buono e un potere cattivo, ma
che il potere va comunque criticato e messo sotto controllo. Il potere non
può guidare la democrazia ma deve essere subalterno alla democrazia. La
seconda conseguenza è cha la pace non è qualcosa da conquistare, ma
qualcosa da affermare. «Preventivamente». Non si può dire: «io faccio una
politica per la pace». Non esiste questa politica. Esiste solo una
«politica di pace», cioè una politica nonviolenta. Non si può discutere
quale politica
sia utile per la pace (lo si è fatto per secoli, e si è sempre giunti alla
stessa conclusione: una politica di guerra). Si può solo scegliere tra
politica pacifica e politica armata. Questo taglia via una discussione
lunghissima e inutile, e costringe tutti a schierarsi.
di Piero Sansonetti.
23.12.2003
Il pacifismo non più elemento di contaminazione della politica, ma vero e proprio obbietivo centrale sula quale i partiti si devono fondare.
Esiste una nota, nell’archivio del ministero dell’Interno, che segnala un’anomalia interessante nei comportamenti politici recenti degli italiani: negli ultimi undici giorni di marzo 2003 si sono svolte, nel nostro paese, 516 manifestazioni pacifiste. Cioè, in media, 46,9 al giorno.