I territori abitati dalle comunità indigene stanno subendo in modo particolare le conseguenze sociali, culturali e ambientali del Plan Colombia. Il Piano ha generato un’intensificazione del conflitto armato nel Paese, ma sta anche provocando degrado ecologico, insicurezza alimentare e problemi di salute a causa delle fumigazioni con glifosato effettuate in varie zone. Il Plan Colombia rappresenta quindi un’intensa minaccia per la sopravvivenza dei popoli indigeni.
Secondo il Difensore Civico e secondo vari rapporti di missioni umanitarie internazionali, la situazione si traduce in una continua violazione dei diritti umani. Questi gruppi non vedono rispettati i propri diritti politici, civili, economici e culturali, su cui si basano le loro forme di vita sociale, la sussistenza, il mondo spirituale, le credenze e le leggi tradizionali che ne governano la convivenza. Le azioni effettuate nell’ambito del Plan Colombia minano anche l’autonomia e la sicurezza dei territori sui cui abitano.
Un recente rapporto dell’ Organización Indígena de Colombia (OIC) sul problema dell’allontanamento delle comunità dai propri luoghi di origine indica che l’attuale conflitto armato tende a espandersi, a intensificarsi e a degradarsi. Afferma che la lotta dell’esercito contro l’insurrezione, appoggiata adesso direttamente dagli Stati Uniti, raffo rza la guerra e quindi i fattori che portano al trasferimento forzato delle popolazioni indigene.
Il conflitto armato, infatti, si allarga sempre di più verso i loro territori. Attualmente colpisce la maggior parte delle 84 popolazioni indigene del Paese. I gruppi armati utilizzano queste zone perché offrono rifugio e possibilità di controllo economico e militare. È inoltre aumentata su queste terre la presenza delle multinazionali e l’attuazione di grandi progetti economici, fattore che rende ancor più complessa la situazione.
I gruppi guerriglieri hanno operato tradizionalmente in territori indigeni. Nella Sierra Nevada de Santa Marta, per esempio, operano due fronti delle FARC (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia) e uno dell’ELN (Ejército de Liberación Nacional). Nella regione del Putumayo, uno degli obiettivi principali delle operazioni del Plan Colombia, sono attivi cinque fronti delle FARC. Il conflitto armato in queste regioni si è intensificato anche in conseguenza della grande espansione dei gruppi paramilitari delle AUC (Autodefensas Unidas de Colombia), seminando il terrore tra la popolazione civile davanti ai massacri, alle uccisioni e alla violenza totale scatenata non solo per il controllo dei territori, ma anche per le coltivazioni ad uso illecito di coca e papavero da oppio. Per l’intensa attività terroristica svolta, nel novembre del 2002 le AUC si sono viste costrette a dichiarare una tregua sotto forti pressioni.
Tutte le parti armate tendono, in generale, a coinvolgere la popolazione civile nella loro guerra, e le comunità indigene non sono state un’eccezione. Vengono bombardati villaggi e insediamenti; si distruggono strade e ponti; si commettono massacri e uccisioni di dirigenti; il libero movimento di alimenti e medicine è controllato; i minori sono reclutati con la forza. Tutto ciò non è altro che violazione dei principali diritti di queste comunità e del diritto internazionale umanitario.
Il movimento indigeno colombiano, attivo da circa 30 anni, è stato generalmente considerato con diffidenza dai gruppi guerriglieri per l’indipendenza politica che lo ha sempre caratterizzato. Questi tentano in ogni occasione di subordinarlo ai propri interessi. I paramilitari, invece, lo considerano un movimento sovversivo, per cui tendono a distruggerlo. Ciò dimostra la difficile e complessa posizione delle comunità indigene, che sopravvivono in mezzo a un conflitto nei cui confronti si sono dichiarati neutrali. Malgrado tutte queste difficoltà, esse difendono comunque la loro autonomia, la loro cultura e le radici che le legano alla terra. Il senso di comune appartenenza a popoli di origine precolombiano dà coesione sociale a queste comunità, permettendo loro di organizzarsi in base ai propri principi atavici. Tentano di impedire, in questo modo, la propria scomparsa a causa di uno scontro armato che con esse non ha nulla a che vedere.
Nel 2003 c’è stato un aumento considerevole di violenze contro le comunità indigene colombiane coinvolte, loro malgado, nella ultra decennale guerra civile. Il numero limitato di comunità indigene e la loro indipendenza sono messe sempre più a rischio di soppravvivenza. La lunga e difficile resistenza civile dei popoli indigeni ha bisogno di un maggior appoggio internazionale perché si rispettino i Diritti Umanitari. Anche la “Comunità di Pace” di San José de Apartadò è da dicembre sotto la pressione continua di minacce di morte per il loro percorso di neutralità dalla guerra.
I territori abitati dalle comunità indigene stanno subendo in modo particolare le conseguenze sociali, culturali e ambientali del Plan Colombia. Il Piano ha generato un’intensificazione del conflitto armato nel Paese, ma sta anche provocando degrado ecologico, insicurezza alimentare e problemi di salute a causa delle fumigazioni con glifosato effettuate in varie zone. Il Plan Colombia rappresenta quindi un’intensa minaccia per la sopravvivenza dei popoli indigeni.
Secondo il Difensore Civico e secondo vari rapporti di missioni umanitarie internazionali, la situazione si traduce in una continua violazione dei diritti umani. Questi gruppi non vedono rispettati i propri diritti politici, civili, economici e culturali, su cui si basano le loro forme di vita sociale, la sussistenza, il mondo spirituale, le credenze e le leggi tradizionali che ne governano la convivenza. Le azioni effettuate nell’ambito del Plan Colombia minano anche l’autonomia e la sicurezza dei territori sui cui abitano.
Un recente rapporto dell’ Organización Indígena de Colombia (OIC) sul problema dell’allontanamento delle comunità dai propri luoghi di origine indica che l’attuale conflitto armato tende a espandersi, a intensificarsi e a degradarsi. Afferma che la lotta dell’esercito contro l’insurrezione, appoggiata adesso direttamente dagli Stati Uniti, raffo rza la guerra e quindi i fattori che portano al trasferimento forzato delle popolazioni indigene.
Il conflitto armato, infatti, si allarga sempre di più verso i loro territori. Attualmente colpisce la maggior parte delle 84 popolazioni indigene del Paese. I gruppi armati utilizzano queste zone perché offrono rifugio e possibilità di controllo economico e militare. È inoltre aumentata su queste terre la presenza delle multinazionali e l’attuazione di grandi progetti economici, fattore che rende ancor più complessa la situazione.
I gruppi guerriglieri hanno operato tradizionalmente in territori indigeni. Nella Sierra Nevada de Santa Marta, per esempio, operano due fronti delle FARC (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia) e uno dell’ELN (Ejército de Liberación Nacional). Nella regione del Putumayo, uno degli obiettivi principali delle operazioni del Plan Colombia, sono attivi cinque fronti delle FARC. Il conflitto armato in queste regioni si è intensificato anche in conseguenza della grande espansione dei gruppi paramilitari delle AUC (Autodefensas Unidas de Colombia), seminando il terrore tra la popolazione civile davanti ai massacri, alle uccisioni e alla violenza totale scatenata non solo per il controllo dei territori, ma anche per le coltivazioni ad uso illecito di coca e papavero da oppio. Per l’intensa attività terroristica svolta, nel novembre del 2002 le AUC si sono viste costrette a dichiarare una tregua sotto forti pressioni.
Tutte le parti armate tendono, in generale, a coinvolgere la popolazione civile nella loro guerra, e le comunità indigene non sono state un’eccezione. Vengono bombardati villaggi e insediamenti; si distruggono strade e ponti; si commettono massacri e uccisioni di dirigenti; il libero movimento di alimenti e medicine è controllato; i minori sono reclutati con la forza. Tutto ciò non è altro che violazione dei principali diritti di queste comunità e del diritto internazionale umanitario.
Il movimento indigeno colombiano, attivo da circa 30 anni, è stato generalmente considerato con diffidenza dai gruppi guerriglieri per l’indipendenza politica che lo ha sempre caratterizzato. Questi tentano in ogni occasione di subordinarlo ai propri interessi. I paramilitari, invece, lo considerano un movimento sovversivo, per cui tendono a distruggerlo. Ciò dimostra la difficile e complessa posizione delle comunità indigene, che sopravvivono in mezzo a un conflitto nei cui confronti si sono dichiarati neutrali. Malgrado tutte queste difficoltà, esse difendono comunque la loro autonomia, la loro cultura e le radici che le legano alla terra. Il senso di comune appartenenza a popoli di origine precolombiano dà coesione sociale a queste comunità, permettendo loro di organizzarsi in base ai propri principi atavici. Tentano di impedire, in questo modo, la propria scomparsa a causa di uno scontro armato che con esse non ha nulla a che vedere.
Mailer Mattié – selvas.org
Nel 2003 c’è stato un aumento considerevole di violenze contro le comunità indigene colombiane coinvolte, loro malgado, nella ultra decennale guerra civile. Il numero limitato di comunità indigene e la loro indipendenza sono messe sempre più a rischio di soppravvivenza. La lunga e difficile resistenza civile dei popoli indigeni ha bisogno di un maggior appoggio internazionale perché si rispettino i Diritti Umanitari. Anche la “Comunità di Pace” di San José de Apartadò è da dicembre sotto la pressione continua di minacce di morte per il loro percorso di neutralità dalla guerra.