“Il Silenzio della Terra” con Laura Corradi


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12080085_1646379898981355_3797802219495762972_oIn continuità con il lavoro politico antirazzista e con l’occhio alle lotte globali ospiteremo Laura Corradi, sociologa presso l’università della Calabria, femminista e attivista.

Ore 18.30 – aperitivo con piatti popolari per sostenere La Boje!

Ore 21.00 – presentazione del libro con Laura Corradi

Qui una recensione

Pubblicato di recente da Mimesis Editore, “IL SILENZIO DELLA TERRA. Sociologia postcoloniale, realtà aborigene e l’importanza del luogo”, di Raewyn Connell e Laura Corradi, fa risaltare in maniera chiara e motivata il ritardo con cui nel nostro paese si affronta la questione postcoloniale.

Laura Corradi passa in rassegna diversi pensatori postcoloniali, tracciandone le teorie, i concetti fondamentali, e le difficoltà incontrate nella diffusione nell’Occidente delle idee di questi studiosi. Il suo testo ci fa incontrare con entusiasmo autori ‘di colore’ poco conosciuti o raramente utilizzati nella sociologia italiana, come William Edgard Burghardt Du Boi Frantz Fanon, Edward Said, Maryse Condè, i quali hanno preso parte attiva nei movimenti anticoloniali, e dato voce a popolazioni subalterne, processi sociali e culturali di resistenza, propri del luogo in cui si trovavano ad operare come intellettuali.

Di Raewyn Connell viene proposto un saggio tratto dal suo libro Southern Theory , dove si esplorano le teorie che vengono dai sud del mondo e temi di vasta rilevanza nel mondo colonizzato ma poco discussi nelle scienze sociali del Nord globale. In particolare si guarda a come siano importanti i luoghi nelle lotte delle popolazioni aborigene.

Nel suo escursus delle teorie postcoloniali, Laura Corradi fa emergere la sua “prospettiva dal basso” che articola in forma “ intersezionale e anticoloniale” nella attività politica e in quella di studiosa. Fa presente che non esiste una definizione condivisa e univoca delle “teorie postcoloniali” poiché riguardano varie discipline: storia, sociologia ma anche antropologia,diritto, psicologia – ed emergono da narrativa, poesia e teatro.

Nella maggior parte, gli studiosi/e postcolonial provengono da famiglie di ex schiavi in USA, oppure dalle colonie dei paesi europei o da gruppi della periferia del mondo che migrano verso il centro imperiale. La base di partenza degli studi postcoloniali riguarda la delegittimazione politica ed etica del colonialismo che mette in discussione quei principi teorici che l’Occidente chiama civilizzazione.

Volendo essere sintetici e chiari, le diverse elaborazioni proposte dalla post-colonial theory presentano un unico denominatore comune che “mira a riscrivere la storia coloniale poiché finora la narrazione dominante è stata quella dei vincitori” come spiega l’autrice. Da attenta studiosa/attivista sulle questioni di genere, si sofferma sul postcolonialism feminism in cui si evidenzia che “queste pensatrici mettono l’enfasi sulla rilevanza delle politiche locali rispetto al femminismo universalizzante dell’Occidente” proposto dalle donne bianche come soluzione globale ai danni del patriarcato.

Altro aspetto importante che l’autrice fa emergere riguarda l’analisi degli studi subalterni in India, ovvero l’influenza avuta dal pensiero di Gramsci tra gli studiosi di Calcutta, fin dagli anni sessanta con la pubblicazione di The Thought of Gramsci (1968) dello storico Susobhan Sarkar. E’ da sottolineare che i Subaltern studies nascono come gruppo di intellettuali nel 1982 ma solo dopo 20 anni approderanno in Italia con la pubblicazione del primo libro (edito da Ombre Corte con introduzione di Edward Said, presentazione di Sandro Mezzadra). Ciò si spiega in parte col fatto che le elaborazioni critiche degli studiosi/e subalterni ci costringono a ripensare al nostro ruolo qui in occidente. Ma anche perché gli scritti ‘indigeni’ venivano considerati come pre-teorici “ fino a quando non hanno trovato un linguaggio coloniale e d un codice disciplinare che permettesse loro di non essere considerati non teoria”.

La “politica del popolo” nella storiografia post-coloniale assume un fattore importante e diverso: riguarda le lotte dei subalterni, delle donne dei contadini e degli operai. Nel testo vengono ripresi gli studi condotti da Ernesto De Martino sulle classi subalterne del sud e da Gianni Bosio sulla storia sociale dei contadini mantovani. L’autrice nota come l’ eredità culturale di Danilo Dolci, che negli anni cinquanta faceva ricerca-azione partecipata con i poveri del sud, oggi sia più valorizzata a New York o in Brasile piuttosto che in Italia.

Tra le diverse proposte della sociologia post coloniale voglio segnalare alcuni spunti politici che ho trovato particolarmente interessanti. Ad esempio, Ranajit Guha , avendo ben presente le rivolte naxalite dell’ India rurale, dimostra che l’insurrezione è un evento “pianificato ed organizzato”, non un avvenimento sfuggito di mano durante una protesta, come spesso ce lo rappresentiamo noi. Anche il concetto di uneven and combined development che l’autrice mutua da James O’Connor mi sembra utile a capire la situazione attuale, di sviluppo ineguale e combinato, perseguito da un neo liberismo che ridisegna il mondo a macchia di leopardo. Infatti le situazioni di salute e di lavoro tipiche della periferia globale oggi si possono riscontra in alcuni ospedali periferici degli Stati Uniti, si nota nel testo. Così come le modalità di spesa della classe media occidentale: ora possiamo trovarle anche in alcuni quartieri di paesi come l’India.

Si potrebbero citare tantissimi altri esempi delle diverse teorie proposte per una sociologia post-coloniale, che tenga conto anche delle prospettive aborigene. Il problema centrale rimane la marginalità con cui vengono considerate le idee che provengono dal sud globale. Laura Corradi ne offre una sintesi che ci invita alla lettura, e all’approfondimento grazie anche alla ricca bibliografia, cercando di contrastare quella che chiama invisibilizzazione funzionale ovvero una doppia cancellazione che avviene nell’accademia: quella simbolica, ovvero l’oscuramento del punto di vista della maggior parte degli esseri umani – a favore della versione dei vincitori – e la della ghettizzazione degli studi empirici e teorici che la riguardano, considerati ‘locali’.

Ad un certo punto della sua elaborazione, l’autrice arriva a porre un interrogativo interessante. Cosa sarebbe successo se 15 o 20 anni fa non si fosse considerato retrò o bizzarro proporre come molto innovativi anche per la realtà italiana studi teorici che ponevano le prospettive dal margine del mondo al centro della teoria sociale? Bisognava mettere in discussione “prospettive eurocentriche e polverose” ed avremmo evitato un ritardo così colpevole di decolonizzazione delle scienze sociali, per intraprendere un processo inevitabile: il superamento “della visione coloniale del mondo, della teoria dell’uomo bianco, del positivismo, della supremazia della ragione sulle altre facoltà della conoscenza, delle visioni dicotomiche e gerarchiche”. Così come la rivoluzione femminista non ha cambiato radicalmente le scienze sociali nel nostro paese, anche quella della critica post-coloniale sembra essere passata sull’impermeabile, come un’altra occasione mancata.

Ma gli spunti e le elaborazioni che fornisce ‘Il silenzio della terra’ possono diventare un utile strumento per studenti, attivisti, per chi fa riferimento ai movimenti sociali di critica alla globalizzazione, dagli indignados, ad Occupy Wall Street, per riuscire a capire quali percorsi intraprendere per decolonizzare il nostro modo di pensare, il nostro ruolo nella resistenza globale.