In questa breve racconto inventato, un compagno de LaBoje! prova a raccontare le sensasazioni che serpeggiano tra i turni di facchinaggio nella totale precarietà lavorativa.
Omar è uno dei ragazzi che lotta a Viadana. L’ho conosciuto pochi giorni fa in piena notte davanti al cancello della Composad. Con lui, alle quattro di notte c’erano moglie e figli, un fuoco acceso e tanti altri come Omar. Non importa da quale paese provenga Omar, so solo che non ha ancora la cittadinanza italiana anche se vive e lavora qui da ormai diversi anni.
Omar porta avanti una lotta per la dignità, lo fa per sé, per la sua famiglia, per i suoi colleghi di lavoro. Finora è stato un numero, una particella di una forza lavoro impiegata a confezionare mobilio del cazzo per la grande distribuzione: scaricare trucioli, pressare trucioli, tagliare trucioli pressati, caricare trucioli pressati da acquistare a Mondo Convenienza. La cucina che ho in casa e che ho pagato novecentonovanta euro probabilmente me l’ha assemblata Omar.
Anch’io una volta ho lavorato presso un assemblatoio di cartoni, quelli che trovate per le promozioni degli shampoo e delle merendine ai supermercati o quelli che tutti avete ammirato come mobilio di cartone al Festivaletteratura. Un capannone con attrezzature obsolete, un sacco di colla a caldo da inalare e tendini spesso infiammati. Ero un numero con una maglietta arancio fluo, un numero simpatico che parla perfettamente dialetto mantovano se preferite, ma pur sempre un numero. Merce umana che prestava la sua manodopera in una catena di montaggio. Nulla di qualificato e di perfettamente sostituibile, tanto che esattamente come le mozzarelle al supermercato io e gli altri scadevamo dopo cinque giorni: l’azienda aveva subappaltato a una agenzia interinale l’assunzione di manodopera con contratti settimanali e ormai più della metà delle maestranze durava cinque giorni prorogati finchè il padrone lo avesse gradito. Alla fine del semi-turno, come un gioco impietoso, mentre timbravi l’uscita del venerdì guardavi un tabellone scritto a pennarello in cui leggevi chi avrebbe lavorato la settimana seguente. Se il tuo nome c’era il gioco continuava, se non eri presente “game over”, a casa, e potevi assistere in diretta al dramma di una madre con due figli lasciata a casa senza che nemmeno nessuno si disturbasse a comunicare la scelta aziendale tra esseri umani.
Così ogni maledetto venerdì notte un rantolo di disperazione di donne e uomini nel parcheggio, in una notte silente, rimaneva per una manciata di minuti a cadenzare il motore dei compressori industriali. I sindacati c’erano eccome, con tanto di bandierine rosse, ma quello era un privilegio per quelli assunti prima della crisi, quelli con i contratti indeterminati. Le stesse RSU ti sconsigliavano di aderire al loro sciopero perché in tal modo avresti accorciato la tua permanenza nello stabilimento e se avevi fortuna, tanta fortuna, ed eri puntuale ad abbassare il cappello all’occorrenza, dopo circa centoventi rinnovi settimanali forse avresti avuto diritto ad entrare nel club dei tutelati, quelli per intenderci protetti dalle garanzie di un contratto Nazionale. Di fronte al pianto e all’umiliazione di una collega che lavorava lì da oltre un anno con cui avevo bevuto al massimo tre caffè, ecco lì, in quel momento pensavi che oltre a essere un posto di merda, beh pensavi solo “anche per oggi non tocca a me”. Era l’unica cosa che riuscivi a pensare oltre all’insaziabile voglia di mettere a ferro e fuoco tutto.
Omar parla malissimo italiano ma il linguaggio della sua lotta parla chiaro e lo comprendo al volo. Le sue parole sono pietre e si riflettono negli sguardi fieri di tanti uomini venuti da altre parti del mondo che ai cancelli è come se mi guardassero e dicessero all’unisono “oggi tocca a noi, tutti insieme fino alla fine”
Basta pensare di essere bestie che ricevono la grazia di una paga da fame senza poter rivendicare nemmeno la metà dei diritti che gli spetterebbero. Omar rischia tutto e lo fa insieme agli altri. Ma Omar mi ha dimostrato che cos’è la solidarietà, che lottare uniti si può, si deve. Il mio pensiero vola a ciò che avremmo potuto fare in quell’assemblatoio di cartoncini o a tutti gli amici che vivono in Brianza, ragazze e ragazzi che hanno prestato lavoro gratuitamente o con la paga di 3 euro all’ora ad Expo, che hanno accettato di strisciare perché meglio un umiliazione retribuita che non avere nulla in mano. Beh Omar e gli altri mi hanno dimostrato che la dignità non ha prezzo. Grazie Omar, grazie per l’insegnamento, je suis Omar.